Stampa e xenofobia
istruzioni per l'uso
La commissione proposta dall'Alto commissariato delle Nazioni unite e incaricata di redigere un codice deontologico per la stampa a tutela degli immigrati e dei rifugiati ha avviato i suoi lavori giovedì scorso. Fin dal primo incontro è emersa la complessità dell'impresa. La "carta di Treviso" (che stabilisce le regole a tutela dei minorenni) è un modello dal quale è possibile attingere alcune linee-guida, ma la questione stampa-immigrazione presenta problemi ulteriori, più complessi. Per esempio: come distinguere le manifestazioni di xenofobia a mezzo stampa dagli ordinari e consueti cliché giornalistici?
E' una vecchia e mai risolta questione. Quando l'Italia non era ancora un paese di immigrazione, si poneva in modo pressoché identico per i cittadini di alcune regioni. Poteva accadere che locuzioni come "bandito sardo" (che avevano una logica perché indicavano non solo una provenienza regionale ma una modalità del banditismo) venissero estese per analogia a casi del tutto diversi. Così il mai dimenticato Flavio Carboni era "il faccendiere sardo" mentre Roberto Calvi non era mai "il bancarottiere lombardo".
In attesa del codice deontologico, è possibile, a partire da quella esperienza di xenofobia regionale, suggerire ai lettori, e anche ai colleghi, un sistema artigianale, ma di una certa efficacia, per capire quando la specificazione dello status (immigrato, clandestino, etc.) o della nazionalità, sono parti costitutive della notizia e quando, invece, contengono i germi del pregiudizio.
E' molto semplice. Immaginiamo un qualunque cittadino italiano, per esempio il senatore Roberto Calderoli, voglia adottare questo metodo. Non dovrà fare altro che aprire la carta d'identità e controllare il proprio luogo di nascita. "Ecco: sono nato a Bergamo". Conclusa questa verifica, dovrà raccogliere un po' di titoli che contengono specificazioni di nazionalità e di status e sostituire a esse l'aggettivo "bergamasco" per vedere cosa succede.
Per facilitargli il compito, abbiamo provveduto a effettuare l'operazione su un campione di notizie tratte dalle agenzie del mese di gennaio. Ecco alcuni dei risultati: "Capodanno: bergamasca partorisce e getta il neonato dalla finestra". "Minaccia connazionale e suo marito: arrestato bergamasco". "Bergamasco arrestato per contrabbando di sigarette". "Bergamasco provoca incidente poi dà fuoco a due auto". "Carceri: bergamasco si cuce la bocca e si conficca ferri in testa". Precisiamo che, per non apparire parziali, abbiamo effettuato lo stesso esperimento con altre città, compresa la nostra, ottenendo risultati non meno surreali.
Sicuramente avremmo riso di meno se, concluso il gioco delle sostituzioni, avessimo sperimentato nella vita sociale che un po' di persone ci guardavano con diffidenza. Attribuendo a noi - per il semplice fatto di essere bergamaschi, o cagliaritani, o aostani o viterbesi - una certa indole violenta, una certa capacità a delinquere. Perché è questo quanto è accaduto in Italia negli ultimi quindici anni, come risulta puntualmente da tutte le inchieste e da tutti i sondaggi. L'immagine dell'immigrato è lontanissima dall'immigrato reale. Si crede che sia giunto via mare quando quasi sempre è giunto via terra, si crede che sia musulmano quando la maggioranza è cristiana e - storditi dall'abuso di "assalti", "invasioni", "ondate" - i cittadini italiani credono che gli immigrati siano molti di più di quanti in realtà sono. Risultati che, a essere franchi, suscitano interrogativi imbarazzanti non solo sulla deontologia professionale ma sul giornalismo italiano tout court. (Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.
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