In galera! Sarà tempo, fra poco, di tirare le somme. Le inaugurazioni dell’anno giudiziario hanno attirato l’attenzione, anche loro, sulla deplorazione per l’indulto: assai meno sui dati effettivi circa i reati, che hanno ancora una volta sconfessato l’allarme e l’allarmismo (cose da tenere distinte, benché il secondo miri screanzatamente al primo) sull’indulto.
Quanto alla necessità di un’amnistia, da sempre additata dai limpidi fautori dell’indulto come un suo ovvio complemento, e come tale riconosciuta tempo fa dalla stessa associazione dei magistrati, si va ora dal silenzio alla menzione a bocca storta.
È chiaro, ahinoi, che si dovrà fare. Se si dovrà fare, si faccia, e si raddrizzi la bocca. Anche sulle leggi da raddrizzare, esse stesse condizione necessaria e dichiarata per non disperdere l’efficacia dell’indulto, si avvicina ormai il tempo di un bilancio.
E ancora. "Cane che abbaia alla luna", così si definisce Francesco Ceraudo, il presidente dell’Amapi, l’Associazione dei medici penitenziari, che ha annunciato le proprie dimissioni, dopo averle, coi suoi colleghi, provate tutte, petizioni e proteste, scioperi e incatenamenti, assalti frustrati ai media per guadagnarsi un varco, implorazioni ai politici di ogni schieramento, dopo che i tagli alla medicina penitenziaria (13 milioni) hanno, dice, messo con le spalle al muro gli operatori, e cancellato l’illusione di un’aria nuova che facesse bene alla salute dei detenuti e alla dignità di medici e personale sanitario e, di conseguenza, di tutti quelli che in carcere lavorano e vivono.
Ceraudo, che dirige il Centro Clinico di Pisa (alla cui ombra ho vissuto molti anni, sono quasi morto e provvisoriamente sopravvissuto, per dirne bene) è persuaso che la sua categoria si sia impegnata sempre più nella qualificazione professionale e nella disponibilità umana, e che sia riuscita in molte situazioni, anche le più impervie, a dare voce a chi non ce l’ha, ad affermare il primato della salute anche dove è facile che prevalgano il feticcio della sicurezza, della punizione, o semplicemente dell’inerzia e della disattenzione, e insomma di ogni genere di presunta "forza maggiore".
I medici penitenziari, dice, seguono con passione l’evoluzione della coscienza pubblica che sottrae alle camere oscure della soggezione o dell’incompetenza le storie dei malati e dei loro cari, e rivendica una qualità degna della vita. Nelle carceri la malattia si aggiunge alla durezza e all’umiliazione della reclusione corporale, e le camere oscure sono doppiamente oscure.
"Alla sofferenza della malattia" dice Ceraudo "si sommano lo spavento e l’incertezza, il senso di colpa e di abbandono, l’angoscia di cedere il controllo di sé senza sapere di chi fidarsi. È terribile affrontare la galera da malati, è ancora più terribile, eppure è troppo frequente ammalarsi in galera, paventando l’ignoto, l’inimicizia o la derisione o il disprezzo, paventando la morte, o una sopravvivenza menomata e mutilata, la mancanza delle cure, il dolore ignorato.
Ceraudo ringrazia Marco Pannella, "sincero interprete degli abissi di bisogno del carcere", e dichiara la sua delusione al "governo Prodi, al ministro Mastella, al sottosegretario Manconi, al capo del Dap Ferrara". Ricorda le parole di Giovanni Conso: "Il riconoscimento della salute come fondamentale diritto dell’individuo che la Costituzione ha assunto l’impegno di tutelare, ha segnato una svolta senza più possibilità di ritornare indietro", e chiosa amaramente che il taglio indiscriminato delle risorse precipita irreparabilmente indietro quell’impegno.
I medici penitenziari fanno appello al presidente Napolitano, quale garante della Costituzione e personalmente sensibile al suo dettato rispetto alla funzione della pena. Le dimissioni, conclude Ceraudo, sono "un gesto umile che non scalfirà la sensibilità di nessuno, ma è carico di mortificazione verso un silenzio istituzionale che non so spiegarmi". Beh, qualcuno glielo spieghi, per favore.
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