In primo luogo il rifiuto della pena perpetua, essendo
l'ergastolo non previsto nell'ordinamento di quel Paese, e dall'altro il non
aver aderito l'Italia al sistema di controllo internazionale dei luoghi di
privazione della libertà, introdotto dalle Nazioni Unite nel dicembre 2002. A quella, data,
infatti, l'Assemblea ha adottato un protocollo opzionale alla convenzione
contro la tortura che prevede appunto un meccanismo ispettivo sovranazionale:
il Brasile lo ha ratificato, al contrario dell'Italia che lo ha firmato, ma non
ha mai provveduto alla ratifica.
Al di là degli elementi tecnici che circondano la decisione, resta la
valutazione che un grande Paese democratico con cui l'Italia ha importanti
rapporti commerciali e culturali, dà dello stato presente delle nostre
istituzioni e della loro capacità di garantire i diritti fondamentali di ogni
individuo, anche di chi deve scontare una pena perché condannato per gravi
crimini. Questo elemento di riflessione sarebbe dovuto emergere dalle
dichiarazioni del mondo politico e istituzionale, che si sono invece limitate a
espressioni indignate, più o meno urlate, o a richieste di ripensamenti in nome
del senso di giustizia, altrimenti offeso.
Al contrario, la non concessione dell'estradizione dovrebbe far emergere
qualche riflessione meno impulsiva. La prima riguarda il passato: la non
difendibilità sul piano internazionale delle norme varate nella fase della cosiddetta
«emergenza» degli anni Settanta-Ottanta e ancor più la cultura e le prassi
processuali di cui esse sono state al tempo stesso causa e conseguenza. Non può
sfuggire il fatto che la vicina Francia ha sempre considerato, pur sotto
presidenze di segno diverso, quantomeno dubbiose sia le procedure, sia le
attribuzioni di responsabilità penale e si è posta come luogo di asilo per
coloro che si erano sottratti all'esecuzione di una condanna per azioni di quel
periodo. Ma, soprattutto che anche altri stati hanno avuto lo stesso
comportamento e che, tranne eccezioni rarissime, forse soltanto una, l'Italia
non ha mai ottenuto l'estradizione di condannati per quegli eventi: né dal
Canada, né dalla Gran Bretagna o dal Brasile o dal Nicaragua. Il paradosso è che
l'elemento aggravante e disinvolto sulle garanzie, che quelle norme intendevano
introdurre, sulla spinta di una pretesa ricerca di maggiore incisività, ha
finito col retroagire verso un senso di negata giustizia, oggi vissuto dalle
vittime di quei reati. Un sentimento, questo, che la continua proposizione di
un'idea di pena di tipo retributivo, che risarcisca quella perdita che non è
mai risarcibile, alimenta opportunisticamente a fini di consenso. Altra sarebbe
la necessità: quella di elaborare i lutti di allora, anche attraverso la
comprensione dei processi sociali e politici in cui quei fatti erano inseriti,
per renderli utili alla comprensione del presente e chiudere così anche
emotivamente una vicenda che la storia ha già chiuso da tempo.
La seconda riflessione riguarda il presente e muove dall'immagine
internazionale delle nostre istituzioni e, nel complesso, della tenuta del
nostro sistema ordinamentale, a partire dal sistema di giustizia. Proprio
quest'ultimo è dipinto in ogni occasione, da parte di chi ha massima
responsabilità di governo, come sistema inaffidabile, politicamente
influenzato, non in grado di esercitare in modo indipendente la propria
funzione. Perché stupirsi allora se l'informazione su queste «autorevoli»
dichiarazioni, che circola diffusamente oltre le Alpi, determina poi una
complessiva non fiducia da parte di altri nell'affidare al nostro stato
l'esecuzione di una sentenza?
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