di Alessio Scandurra su il manifesto del 9 settembre 2023
Lo hanno chiamato decreto Caivano. È il pacchetto di misure con cui il governo di Giorgia Meloni ha affrontato l’emergenza creata dagli ultimi fatti di cronaca nera che hanno visto come protagonisti dei minorenni. Fatti a cui i media, e la politica, hanno dato grande risalto. E ai quali questo governo risponde mostrando i muscoli, ma mostrando anche di capire poco, o di essere poco interessato, alla concretezza dei fenomeni con cui si misura.
Anzitutto più pene e più carcere, la risposta con cui da molti anni in Italia si affrontano tutti i problemi. Una strategia notoriamente inutile, che non ha mai funzionato ma che viene continuamente riproposta, e che questa volta colpisce i giovani e il sistema della giustizia minorile che avevamo costruito intorno ai loro bisogni.
Da tempo l’Italia non è un paese per giovani. Non vogliamo metterli al mondo, sono sempre meno ma non gli mettiamo a disposizione le strutture e gli spazi per crescere, mancano asili, scuole e insegnanti, e abbiamo tassi record di abbandono scolastico e numeri bassi di giovani che proseguono e concludono gli studi universitari. Li accusiamo poi di essere fannulloni e poco disposti a fare lavori in condizioni che in altri paesi europei sono fuori dalla legge. E infine negli ultimi anni li abbiamo resi i protagonisti di ogni storia di degrado urbano.
L’esperienza di governo che si era aperta, non a caso, con il decreto per la criminalizzazione dei rave, e che, in coerenza con quanto sopra, vuole addirittura rendere la gestazione per altri un “reato universale”, lancia oggi un attacco frontale al sistema della giustizia minorile. Le misure sono molte e sono state già illustrate altrove, ma è lo spirito che le accomuna che colpisce: inasprire le pene non basta più.
Si prevedono innalzamenti delle pene per alcuni reati, tra cui lo spaccio di lieve entità, che avrà certamente un impatto significativo sui numeri dei giovani in carcere, minorenni o giovani adulti. Ma si sa che queste pene più alte arriveranno alla fine di un processo che, nel nostro sistema, mette al centro l’interesse superiore del minore. Un sistema che è considerato un’eccellenza in Europa. E allora si interviene ancora prima che la pena arrivi. Si abbassa ad esempio l’età, 14 anni, in cui si può diventare destinatari di misure di polizia, come il Daspo urbano, e si porta a 12 quella in cui si può essere destinatari di un “avviso orale” del questore. Diventa più facile per i minorenni finire in custodia cautelare, in carcere o ai domiciliari, quando ancora presunti innocenti, e si allungano per loro i termini massimi della custodia cautelare stessa.
Si prova dunque a costruire un sistema della giustizia minorile da un canto meno garantista, e dall’altro più diffidente verso gli strumenti sopra citati, che collocano il minore, i suoi bisogni e il suo sviluppo al centro del procedimento penale che lo riguarda, di modo che questo abbia una funzione educativa prima che retributiva in un momento critico per il suo sviluppo. Bisogna insomma anticipare la risposta repressiva dello Stato, perché alzare le pene non basta più.
Un attacco frontale a quella che è forse l’unica eccellenza del nostro sistema della giustizia. E che fino ad oggi ha dato ampiamente prova di funzionare. Con un ricorso sempre più residuale al carcere per i minorenni, accompagnato da una costante calo della loro delittuosità. Un calo che dopo la pandemia ha avuto però una battuta d’arresto. Ma perché? Se il sistema della giustizia è sempre lo stesso, probabilmente perché sta cambiando qualcosa al di fuori di questo. E alcuni segnali ci sono.
Telefono Amico, che dal 1967 offre supporto a chi si trova in un momento di crisi, soprattutto per prevenire gesti estremi, segnala come la sua utenza sia raddoppiata negli ultimi anni, dalla pandemia ad oggi, e come sia cresciuta soprattutto per i giovani. Mentre l’Istat, con dati fermi però ancora al 2021, ci dice che la percentuale di adolescenti in cattive condizioni di salute mentale passa dal 13,8% nel 2019 al 20,9%. E dal 2021 allora ad oggi la situazione si è probabilmente ancora aggravata.
Questa è verosimilmente l’emergenza a cui il decreto Caivano risponde nel peggiore dei modi, colpendo con durezza proprio dove andrebbe fatto l’esatto contrario.