Quei dimenticati nella colonia. A Isili dai «delinquenti abituali»

17soc1-f01-carcere-isilidi Patrizio Gonnella e Susanna Marietti su il manifesto del 17 agosto 2023

In Sardegna, nascosto da qualche parte, c’è un evaso. Oppure no: forse ha già lasciato l’isola, chissà con quale mezzo, e ha raggiunto il continente. Non si hanno più notizie da quando, lo scorso 25 febbraio, si è calato con le lenzuola annodate lungo il muro del carcere di Nuoro ed è scappato via correndo. In internet gira mille volte il filmato. Di lui si sente parlare, aleggia nell’aria. Non capita spesso di evadere. Ma, soprattutto, non capita quasi mai di non venire riacciuffati nelle ore immediatamente successive all’evasione. Lo nominano gli operatori delle carceri che visitiamo, lo nominano i nostri colleghi della sede locale di Antigone, lo nomina l’albergatore dove alloggiamo quando ci chiede cosa facciamo in Sardegna. 

Abbiamo una prova concreta della sua influenza quando arriviamo in una delle tre colonie penali sarde. Ci accompagna nella visita il comandante della polizia penitenziaria. È molto tempo che è qui? No, non ha la memoria storica dell’istituto, sono altri operatori che ci raccontano cosa accadeva negli anni passati. Sono solo pochi mesi che il comandante è arrivato in questa colonia isolata e lontana da tutto. Prima era in servizio a Nuoro. 

È una pratica tanto ipocrita quanto consueta in ambito carcerario. Nessuno è responsabile delle grandi falle del sistema, della recidiva alle stelle, delle morti in cella, dell’assenza di attività o delle strutture fatiscenti, ma di fronte al singolo evento di cronaca deve esserci sempre un singolo nome da additare, punire, trasferire. 

LE TRE COLONIE PENALI della Sardegna non sono tutte uguali tra loro. Is Arenas e Mamone si estendono su un territorio molto più vasto, quasi tremila ettari, e tutti i detenuti che vi lavorano hanno una condanna definitiva da espiare. Isili è circondata da meno terreno e le persone che ospita non sono omogenee dal punto di vista giuridico. In tutto non raggiungono il centinaio, nonostante i posti disponibili sarebbero centotrenta. Una trentina scarsa di loro non è lì a scontare una pena.

Non sono detenuti. Si chiamano piuttosto “internati” e sono in carcere in quanto sottoposti a una misura di sicurezza detentiva. Questa può generarsi in due modi: o in seguito a una qualche violazione delle prescrizioni legate alla libertà vigilata oppure in quanto il magistrato ha deciso che la persona in questione è un delinquente abituale, professionale o per tendenza. In questo caso, dopo aver finito di scontare la pena della reclusione che le è stata comminata alla fine del processo, non sarà libero di uscire dal carcere ma dovrà invece fermarsi in cella per un’aggiunta di detenzione non più legata al fatto commesso bensì alla sua propria natura più intima. È un delinquente in sé, non per quel che ha compiuto. La società sarebbe danneggiata dal suo ritorno in libertà e quindi il codice fascista del 1930 ha previsto uno strumento atto a lasciare al giudice le mani libere per tenerlo dietro le sbarre a proprio piacimento, a prescindere da eventi concreti oggettivi.

I delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ci dice l’articolo 215 del codice penale, vengono assegnati a una casa di lavoro o a una colonia agricola. Il carcere di Isili è il solo in Italia – se si esclude una piccola sezione con sei posti a Barcellona Pozzo di Gotto, in Sicilia, aperta un anno fa – ad avere una sezione di colonia agricola. Se dunque quando parliamo di colonia penale usiamo un’espressione informale, superata, che non ha corrispettivo formale nell’ordinamento attuale e sta solo a indicare un modello di vita detentiva quotidiana aperto e improntato al lavoro nei campi, se parliamo di colonia agricola stiamo invece facendo riferimento a un preciso istituto del codice italiano. 

NELLA SEZIONE colonia agricola di Isili, la vita non è come nel resto delle colonie penali. Le celle sono perlopiù chiuse. L’aria è cupa. La presenza di patologie – assenti quasi per definizione nel resto del carcere, essendo la buona salute fisica e psichica uno dei requisiti per poter essere ammessi a Isili, Is Arenas, Mamone – ha qui un peso importante. Camminando lungo la sezione vediamo un giovanissimo ragazzo immigrato disteso sul letto. Potrebbe dormire, semplicemente. Se non fosse che il corpo è scosso da un tremito diffuso e ininterrotto. Più avanti c’è un altro giovane uomo. È seduto sullo sgabello della sua cella, ci sorride di un sorriso infantile e ci saluta muovendo la mano. Non possono farlo uscire, ci spiegano, perché è un esibizionista. Se si trova in stanza con altri si abbassa i pantaloni e mostra a tutti le parti intime. E poi, ancora tra gli internati di Isili, c’è chi non si lava da anni perché sostiene di appartenere a una religione che lo proibisce, e la sua cella, dalla quale non vuole mai uscire, è un luogo di frontiera ormai inaccessibile a chiunque altro.

SOLITUDINI SU SOLITUDINI, gli internati sono gli esclusi degli esclusi. Ne sono consapevoli gli operatori, i poliziotti penitenziari, che si adoperano in tutti i modi per inventare una speranza in quelle vite ufficialmente dimenticate dal sistema. Non c’è alcuna delinquenza abituale in loro. Nessuna tendenza. Parole dal senso vago che finiscono per non significare nulla. È quell’idea di pericolosità sociale che niente ha a che fare con i principi di legalità, offensività e tassatività che dovrebbero caratterizzare il sistema penale in un paese liberale. 

Nella colonia agricola di Isili, così come nella casa di lavoro di Vasto e in tutte le altre sezioni analoghe in giro per l’Italia, sono rinchiuse persone che non si sa dove collocare. Così viene prorogata loro, dai giudici di sorveglianza, la permanenza in carcere, sostenendo che sono ancora pericolosi. In realtà sono soltanto soli, senza nessuno che li accolga fuori. Non vi sono servizi territoriali per farsene carico, non vi sono famiglie. 

Tutti gli internati sono di fatto portatori di una qualche patologia psichiatrica. Ma il ragazzo che ha rubato dieci volte di seguito una scatoletta di tonno dal supermercato diventa facilmente, nell’interpretazione del magistrato, un delinquente abituale. Se poi ha cercato di scambiarla per un pacchetto di sigarette è un delinquente professionale. Quanto alla tendenza, chiunque commetta un reato, dal più piccolo al più grande, può custodirla nel profondo di sé. 

La Sardegna non ha bisogno di caserme da adibire a carceri ma di idee, risorse umane. Ha bisogno di una regia pubblica che non faccia coincidere la parola isola con la parola isolamento. Qualcosa che sempre più vale anche per tutta quella grande isola nella quale è stato trasformato l’intero sistema penitenziario italiano.

 

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