Tilde Napoleone
Scarcerare la società racconta e spiega alcune favole contemporanee e lo fa attraverso una ricerca e una riflessione sul carcere, sul suo ruolo e sulla sua inutilità.
Portati fino ad ora a considerare il carcere come il punto più alto della nostra crescita umana e democratica, a parere del nostro autore, invece, il carcere non è e non sarà mai in regola con gli obblighi umanitari. Si, è vero, in carcere non scorre più il sangue, non si assiste più, se non in casi sporadici, alle torture, grazie al carcere non si uccidono più i corpi. Ma in carcere però i corpi sono conservati, abbandonati, reclusi ed esclusi, interiormente distrutti. Il paradosso è tutto qui. Il carcere non fa vedere, per questo tranquillizza, ma non è per questo più umano. L’invisibilità non consente le repliche, le proteste, se non quando qualche avvenimento raccapricciante viene posto sotto i riflettori mediatici. Prima, la gente poteva vedere il sangue scorrere e poteva crescere nel rifiutare pratiche via via considerate troppo disumane. E vedendo, sono nate le proteste, le lotte, il rifiuto di chi non tollerava più tanta violenza. Invece la segregazione, l’istituzionalizzazione nasconde e pacifica le coscienze di chi pensa di avere raggiunto la migliore soluzione possibile. Ma Brossat ci ricorda che questo modo di pensare è solo l’interiorizzazione dello sguardo del poliziotto e di quello dello stato. E’ lo Stato, è il poliziotto che sentono il bisogno di difendere l’ordine costituito, di difendere quella scala di valori che ha voluto darsi. Ma quest’ordine, noi, tutti non l’abbiamo votato. La divisione che il carcere rende eterna e che ormai viene data per scontata tra chi è giusto e chi non lo è, tra chi è asociale e chi non è, tra il ladro e chi non ruba, non deve essere data per scontata. E’ relativa, è frutto di scelte su cui discutere. La discussione da iniziare non è “Esiste una soluzione migliore del carcere?”, ma “Chi incarceriamo e perché lo facciamo?”, “A quali valori diamo priorità?”. Il carcere decide chi è il “rifiuto”, secolarizza una verità che tale non è e in questo senso è un’istituzione politica.
Le questioni come l’avvicinare il carcere alla società, umanizzarlo, riempirlo di senso per il detenuto, sono “temi dell’approccio illuminato, riformatore e filantropico del XIX secolo”. Il problema è invece per Brossat come eliminarlo, in quanto una delle peggiori espressioni di disumanità, mascherata da parvenza democratica. “Non ci sono più i ferri, né la ruota, né il patibolo, né il rogo. Niente. Ciò che rimpiazza tutto è il tempo, una vita amputata del tempo. Non si uccide, si lascia morire. Il carcere sapara e separa quella parte di noi, altrettanto selvaggia e potenzialmente criminale, che solo casualmente siamo riusciti a domare. Noi non siamo, ci dice Brossat, così lontani dal criminale che vogliamo respingere. Ma è proprio per questo che lo isoliamo di più, con più forza, riproponendo continuamente questo rito che ci dona la salvezza e ci racconta la favola della nostra innocenza. Brossat fa questa considerazioni partendo da avvenimenti che la Francia ha conosciuto, prendendo spunti dalla storia carceraria, facendo parlare autori come Faucault, Benjamin, Arendt, Levi Strass e infine dando voce al punto di vista di chi è solitamente muto, di chi il carcere l’ha vissuto e il cui sguardo deve essere ripreso per non accettare passivamente, solo lo sguardo del poliziotto.
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