La tortura "rattoppata", di Mauro Palma

La tortura "rattoppata"

Il Manifesto, 17 maggio 2004

 

Se violenza e minacce sono esercitate una sola volta allora non si tratta di tortura che è tale solo se la violenza è "reiterata", una soluzione eticamente inaccettabile.

"È un voler confondere tutti i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore e accusato, che il dolore divenga il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile.
Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti".

Siamo nell’estate del 1764 quando vengono date alle stampe queste parole di Cesare Beccaria, contenute in un libretto, dal titolo Dei delitti e delle pene, destinato a segnare non solo il pensiero giuridico ma la più generale cultura dei secoli a venire.
La tortura, scrive Beccaria, oltre che "cagionare infamia" in chi ne è vittima, non è neppure efficace nella ricerca della verità: parole che segnano una società fino ad allora abituata alla disponibilità dei corpi per l’inquisitore, alla ricerca di una presunta verità o di una esemplarità punitiva; non estirpano certo la tortura, come il ventesimo secolo insegna, ma ne negano legittimità e esibizione.

240 anni dopo torniamo a leggere le sue parole, mentre le pratiche di tortura si riaffacciano nelle nostre case attraverso alcune foto di detenuti iracheni violati nella dignità e nei corpi dai giovani che li detengono.
Ma soprattutto sulla scia della leggerezza con cui il tema è stato recentemente affrontato dal nostro Parlamento.

La tortura è stata formalmente bandita dalla gran parte degli stati moderni, firmatari di un’apposita Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.
Questa indica impegni e obblighi per gli stati affinché non si offrano spazi a deroghe: è un divieto assoluto.
Eppure non è debellata dal nostro panorama.
Non solo negli stati non firmatari della Convenzione, ma anche in quelli che l’hanno sottoscritta, ritorna in particolari contesti nelle forme cruente o in quelle più sofisticate che lasciano minori tracce visibili.
Permane in molte situazioni di detenzione o di interrogatorio di persone fermate.

La Convenzione contro la tortura obbliga gli Stati aderenti a perseguirla penalmente, prevedendo per essa una pena adeguata e l’inammissibilità di giustificazioni, nonché una giurisdizione penale ampia, per evitare che i responsabili possano passare tra le maglie della giustizia dei diversi stati. Ma, l’Italia, a sedici anni dalla ratifica, non ha finora introdotto nel proprio codice il reato di tortura.
La giustificazione è stata sempre che i fatti costituenti la tortura sono comunque perseguiti attraverso altri reati ordinari: dall’arresto illegale, all’abuso di autorità contro arrestati o detenuti, alla violenza privata, alle percosse e le lesioni.

Posizione debole, perché la Convenzione vuole proprio sottrarre la tortura all’ordinarietà, evidenziandone specificità e gravità.
E per questo richiede pene appropriate e soprattutto la possibilità di esercitare la giurisdizione in maniera ampia, tendenzialmente universale: ciò non è possibile senza uno specifico reato di riferimento, né si può pensare di esercitarla per fatti qualificati come lesioni.

Questa posizione traballante sembrava essere arrivata al termine nelle scorse settimane: una proposta di legge di introduzione del reato specifico nel nostro codice è arrivata alla discussione della Camera, con un apparente accordo di tutte le forze politiche.
Una proposta semplice, che riprendeva la definizione di tortura data dalla Convenzione e prevedeva una pena da sei mesi a dieci anni per i maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine di persone fermate o arrestate, per ottenerne confessioni o informazioni o per intimidirle o umiliarle.
Una norma con valore preventivo, quale messaggio verso quella cultura di copertura, troppe volte presentata come "spirito di corpo", che è di grave danno per chi invece opera correttamente.

Ovviamente gran parte della tortura ha la forma della minaccia: di infliggere sofferenze, di colpire persone care, di detenere indefinitamente e segretamente, di simulare un incidente per giustificare un’eventuale uccisione… la minaccia è parte costitutiva della sensazione di essere nella disponibilità del proprio aguzzino, che si determina nella vittima.

Un improvvido emendamento della Lega Nord ha proposto che laddove il testo menzionava le violenze e le minacce a cui la persona è sottoposta, venisse aggiunto l’aggettivo "reiterate".
La maggioranza ha approvato.
Quindi violenze e minacce, se esercitate una sola volta, non rientrano nell’area di azione del nuovo reato: per una volta "si può".
Non solo, ma basta cambiare ogni volta colui che opera per non configurare mai tale responsabilità penale.
Una norma ineffettiva, oltre che eticamente inaccettabile.

La corsa ai ripari di coloro che hanno votato per ordine di schieramento, al di là del contenuto, è andata nella direzione di riservare solo alle minacce quella richiesta di reiterazione. Debole rattoppo: anche una sola volta la minaccia di supplizio o di rivalsa su un’altra persona cara, nel contesto intimidente in cui si attua e nella situazione psicologica di minorità della persona a cui è rivolta, è di per sé contraria a quella proibizione assoluta, che non ammette deroghe.
Dunque conviene rinunciare alla legge e attendere tempi migliori.
Ma, quando interessi di alleanze e gruppi prendono il sopravvento sui valori fondamentali, tutti dovremmo fermarci un attimo a riflettere.
Perché tutti stiamo perdendo qualcosa.

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