RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE

RELAZIONE DELLA COMMISSIONE MINISTERIALE PER LA RIFORMA DEL CODICE PENALE (istituita con D.M. 31 LUGLIO 2007)

 

INDICE

 

I.                  Premessa

II.               Principi di codificazione

III.           Principio di legalità

IV.            Riserva di codice

V.               Principio di offensività

VI.            Irrilevanza del fatto

VII.        Principio di colpevolezza

VIII.     Efficacia della legge penale nel tempo

IX.            Efficacia della legge penale nello spazio

X.               Il reato

XI.            Soggetto attivo, condotta, evento, nesso di causalita

XII.        Dolo, colpa, colpa grave

XIII.     Ignoranza ed errore

XIV.     Cause oggettive di giustificazione – cause soggettive di esclusione della responsabilità

XV.         Reato tentato

XVI.     Circostanze del reato

XVII.  Concorso di reati – concorso formale – reato continuato

XVIII.         Concorso di persone nel reato

XIX.     Imputabilità

XX.         Persona offesa dal reato

XXI.     Querela, istanza, richiesta

XXII.   Prescrizione

XXIII.          Le pene

XXIV.          Commisurazione della pena

XXV.  Oblazione

XXVI.          Messa alla prova

XXVII.      Sospensione condizionale e altre cause di estinzione della pena

XXVIII.   Sanzioni civili

XXIX.          Confisca

XXX.  Responsabilità degli enti

 

 

 

 

 

I. Premessa

 

La Commissione che ha avuto l’incarico di predisporre uno schema di disegno di legge delega di riforma del Codice Penale è stata istituita il 30 luglio 2006, con Decreto del Ministro della Giustizia, sen. Clemente Mastella. Nei giorni successivi la Commissione si è convocata per organizzare i propri lavori e, dal  mese di settembre, si è riunita con cadenza settimanale per predisporre un progetto di legge delega relativo alla parte generale del codice e, quindi, proseguire i lavori, dividendosi in sottocommissioni,  per predisporre uno schema di delega per la  parte speciale.

La Commissione si è fortemente impegnata per definire, in tempi relativamente brevi, lo schema di parte generale, con l’auspicio che, nella prima parte della legislatura, il Parlamento potesse iniziare l’esame del relativo Disegno di legge. Solo conoscendo l’orientamento del legislatore su temi particolarmente rilevanti – basti pensare al mantenimento o meno della distinzione tra delitti e contravvenzioni, al principio di offensività, alla previsione del dolo eventuale e della colpa grave e alle profonde modifiche  sistema sanzionatorio – si poteva evitare il rischio di uno schema di delega per la parte speciale non coerente con decisioni già prese o, in ogni caso, con l’orientamento del Parlamento.    

Il fatto che il mondo accademico e gli operatori del diritto si siano da tempo espressi per la non procrastinabilità di un codice penale moderno e pienamente aderente ai princìpi costituzionali, e il dato che la riforma del codice penale fosse indicata tra le priorità nei programmi delle due coalizioni che si sono presentate alle elezioni, hanno determinato la Commissione a lavorare  con ritmi stringenti per consegnare al Ministro un testo in tempi relativamente brevi. Il che è stato possibile solo in quanto si è ritenuto unanimemente di tenere in gran conto il prezioso lavoro delle precedenti Commissioni ministeriali (autorevolmente presiedute dal prof. Pagliaro, dal prof. Grosso e dal dr. Nordio) e quello del Comitato istituito dalla Commissione Giustizia del Senato che, nel 1995, aveva approvato un progetto di riforma della parte generale del codice penale (progetto Ritz). La Commisione ha altresì approfondito con particolare attenzione i commenti che, su tali progetti, sono apparsi in numerosi articoli pubblicati sulle principali riviste giuridiche.    

Il 14 maggio 2007 la Commissione ha presentato al Ministro della Giustizia, sen. Clemente Mastella, una prima bozza di schema di legge delega di modifica della parte generale del codice. Nei mesi successivi vi sono stati  numerosi momenti di confronto in seminari, dibattiti e convegni ai quali hanno partecipato esponenti dell’ accademia, dell’avvocatura, della magistratura, degli operatori penitenziari e di associazioni che si occupano delle tematiche collegate al sistema penale e al rapporto tra carcere e società. Dal 21 al 23 giugno si è tenuto, a Siracusa, un seminario, organizzato dal prof. Alfonso Stile, nel corso del quale lo schema di legge delega predisposto dalla Commissione è stata esaminato e valutato da oltre 70 professori di diritto penale. Il 17 luglio, l’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia ha fatto pervenire alcune osservazioni “di carattere tecnico” sul testo elaborato dalla Commissione. Dei  rilievi, delle indicazioni, dei suggerimenti emersi nel corso di Convegni e seminari, nonché delle osservazioni dell’Ufficio legislativo e dei commenti pubblicati su riviste giuridiche, la Commissione ha discusso in due sedute plenarie, modificando o precisando, in vari punti, il testo iniziale e approvando il testo finale, allegato alla presente relazione.    

A conferma  della volontà di iniziare, anche in Parlamento, il confronto sulla riforma del codice penale, vi sono state, nel corso di quest’anno, varie sollecitazioni della Commissione Giustizia del Senato affinché il Governo approvasse un Disegno di Legge-delega per l’emanazione di un nuovo codice penale. Nella seduta del 13 settembre 2007, l’Ufficio di Presidenza della Commissione Giustizia del Senato, dopo aver preso atto che la Commissione ministeriale aveva presentato al Ministro della Giustizia un progetto di riforma della parte generale del Codice penale, ha “convenuto di segnalare al Governo la volontà della Commissione di dare inizio rapidamente all’esame di una riforma così importante ed attesa, in modo che il Governo possa contribuire al dibattito con una propria iniziativa legislativa, la cui utilità risulta evidente se si considera il carattere strutturale della riforma e il valore culturale, scientifico e politico del lavoro svolto dalla Commissione presieduta dall’on. Giuliano Pisapia”. La Commissione Giustizia del Senato ha quindi previsto, per il prossimo mese di gennaio, l’inizio della discussione dei disegni di legge che hanno ad oggetto la riforma della parte generale del codice penale.

 

 

II. Principi di codificazione

 

Nello svolgimento dei lavori, la Commissione ha fatto particolare attenzione a formulare, soprattutto sui punti più innovativi rispetto al codice vigente, direttive chiare e precise oltre che sufficientemente circostanziate, seguendo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale nell’interpretazione dell’art. 76 Cost.  Ha inoltre ritenuto opportuno far precedere le direttive di delega da alcuni “princìpi di codificazione”, tra cui l’affermazione del principio di legalità (da attuare mediante la previsione chiara e determinata di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato nonché l’indicazione espressa di tutti i presupposti della punibilità), l’esclusione di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva (prevedendo ”come sole forme di imputazione il dolo e la colpa”) e l’indicazione per cui non possono avere rilevanza penale fatti che non “offendono beni giuridici di rilevanza costituzionale”.

Compito principale del legislatore penale deve essere quello di garantire la salvaguardia dei beni giuridici di rango costituzionale: questo il motivo per cui - pur nella consapevolezza che la nostra Carta Costituzionale, nel vincolare il contenuto dei divieti penali al rispetto di altri princìpi esplicitamente dichiarati (libertà, uguaglianza, riserva di legge), non esplicita testualmente il principio di offensività – si è ritenuto, pur con qualche opinione dissenziente, che la protezione dei beni giuridici costituzionalmente rilevanti assurga a scopo ultimo del diritto penale. Se si considera che l’art. 13 Cost. assegna un valore preminente alla “libertà personale” - bene di rango costituzionale sul quale incide la sanzione penale – ne dovrebbe coerentemente conseguire il fatto che la sanzione penale, che incide  su tale libertà, sia prevista solo per la tutela di beni che, se pur non di pari grado rispetto al valore  sacrificato (la libertà personale), siano almeno dotati di rilievo costituzionale. 

L’inserimento, tra i principi di codificazione, dell’esclusione di qualsiasi forma di responsabilità oggettiva, deriva dalla interpretazione che la Corte Costituzionale ha dato dell’art. 27 comma 1 Cost. allorchè ha chiarito, nella ben nota decisione relativa al problema della scusabilità dell'ignorantia juris,  che "gli elementi più significativi della fattispecie ... non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell'agente" (Corte Cost., sent. 364/88). La stessa Corte ha successivamente precisato che, per rispettare il primo comma di tale articolo, è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano oggettivamente collegati all'agente e siano, quindi, investiti dal dolo e/o dalla colpa (sent. 1085/88). Tali decisioni, e l’ampio dibattito che si è sviluppato successivamente, ha eliminato qualsiasi dubbio sulla incompatibilità con i princìpi sopra enunciati, non solo della responsabilità per fatto altrui, ma anche di ogni tipo di responsabilità fondata sulla mera causazione fisica dell'evento, senza un accertamento della partecipazione psicologica. 

La riforma del codice deve ad avviso della Commissione, porsi l’obiettivo di un diritto penale “minimo, equo ed efficace”, in grado di invertire l’attuale tendenza “panpenalistica” che mostra, ogni giorno di più, il suo fallimento. L‘inserimento, nel nostro ordinamento, di sempre nuove fattispecie penali (soprattutto contravvenzionali) – che puniscono condotte per le quali sarebbe ben più efficace una immediata sanzione amministrativa – ha contribuito in modo rilevante a determinare l’attuale stato della nostra giustizia penale, unanimemente considerata al limite del collasso, con milioni di procedimenti penali pendenti e conseguente quotidiana violazione di quella “ragionevole durata del processo”, sancita dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

 

 

III. Principio di legalità  

 

Unanime è la convinzione che le linee della riforma  debbano tendere a realizzare la razionalità, la coerenza, l’efficienza del sistema penale e la consonanza con le regole e i valori della Costituzione repubblicana. Il conseguimento di tali obiettivi dipende principalmente dal principio di legalità, presidio di certezza e garanzia insostituibile della libertà e della dignità della persona, la cui piena attuazione è indispensabile soprattutto in un momento storico nel quale più forte è l’incidenza dei vari fattori di crisi della legalità e della certezza del diritto.

L’essenzialità della funzione garantistica del principio di legalità è confermata dalla disposizione contenuta nell’art. 7, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata con L. 4.8.1955, n. 848), e, quindi, inserita nell’ordinamento italiano in una collocazione sovraordinata alle leggi ordinarie, trattandosi di  norma derivante da una fonte riconducibile a una competenza atipica e, come tale, insuscettibile di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria (Corte Cost., sent. n. 10 del 1993).

L’ambito della riserva di legge deve evidentemente coprire tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di reato e le sanzioni comminate per la violazione del precetto, nel senso che la predeterminazione legale deve avere per oggetto il fatto, la colpevolezza, le circostanze aggravanti o attenuanti, la punibilità nonché i presupposti della punibilità, delle pene, dei casi di conversione, dei criteri di ragguaglio, le conseguenze sanzionatorie e gli altri effetti penali.

Anche il principio di determinatezza è parte integrante del principio di legalità. La Corte Costituzionale ha definito la determinatezza come un profilo coessenziale al principio di legalità, che contrassegna un “modo di essere” della legge penale: ne consegue la necessità che il precetto sia enunciato in termini precisi ed univoci e l’inderogabilità di evitare l’impiego di espressioni linguistiche ambigue, oscure e di valenza polisemantica, che pregiudicano la garanzia della certezza giuridica e permettono al giudice di erodere il limite invalicabile della riserva di legge, aprendo la strada ad operazioni interpretative modificatrici dell’effettiva portata della norma incriminatrice. Il principio di determinatezza ha come destinatari il legislatore e il giudice: al primo è fatto carico di  provvedere  alla  predeterminazione del contenuto normativo in forma chiara e precisa;  al secondo è fatto divieto di ricostruire il significato della norma in termini differenti da quelli risultanti dalla formulazione di essa e di ampliarlo, quindi, a casi diversi da quelli espressamente previsti. Nella sua funzione di regola di garanzia, il principio esplica i suoi effetti anche sul versante della tutela del diritto di difesa dell’imputato e dell’obbligatorietà dell’azione penale, in quanto la descrizione  precisa della fattispecie è condizione necessaria della verifica della rispondenza del fatto concreto all’astratta previsione normativa. Analogo discorso deve essere fatto in relazione al principio di “chiarezza” della norma penale: è indubitabile, del resto, che formulazioni oscure ed ambigue finiscono per intralciare la possibilità di individuazione del reale oggetto dell’accusa, nonchè le attività difensive e giudiziali nell’accertamento dei fatti.

Anche il principio di tassatività, inerente al momento applicativo o interpretativo della legge penale, si pone in rapporto di strettissima connessione con  il principio di determinatezza e, al pari di quest’ultimo, costituisce uno dei profili del principio di stretta legalità: quest’ultimo implica necessariamente la giuridica impossibilità per il giudice di estendere il precetto penale oltre i casi previsti e di applicare pene diverse, per specie e quantità, da quelle stabilite dalla legge penale.     

          

 

IV. Riserva di codice

 

Con tale direttiva si è voluto sottolineare la necessità di fare del codice il testo centrale dell’intero sistema penale, onde porre un freno al continuo inserimento di fattispecie penali in leggi speciali con effetti negativi sia in relazione alla chiarezza che alla effettiva possibilità di conoscenza, da parte dei cittadini, delle condotte penalmente rilevanti. Ciò anche al fine di evitare ulteriori estensioni della legislazione penale che, come già evidenziava nel lontano 1991 la relazione al progetto Pagliaro, “ha assunto dimensioni abnormi”.

Il principio di “riserva di codice” - pur attenuato dalla necessaria indicazione di prevedere disposizioni penali inserite in leggi disciplinanti organicamente l’intera materia cui si riferiscono (es. normativa sugli stupefacenti, sul contrabbando, sulle armi) -  era già stato previsto dall’art. 3 del progetto Grosso. La Commissione Pagliaro aveva stabilito, tra i princìpi di codificazione, che il codice penale dovesse “porsi come testo centrale e punto di riferimento fondamentale dell’intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo di decodificazione”.

         La previsione di una “riserva di codice”, che si potrebbe definire “attenuata” in quanto tiene conto della peculiarità del nostro sistema penale, intende rafforzare il principio di legalità allo scopo di superare la crisi di efficienza e di garanzie del diritto penale, nonché di creare i presupposti di una effettiva possibilità di conoscibilità delle norme penali (principio garantista che ha anche una efficacia deterrente). Il codice penale dovrebbe diventare un testo esaustivo e, per quanto possibile, esclusivo dell’intera materia penale, della cui coerenza e sistematicità il legislatore dovrebbe ogni volta farsi carico. Ne verrebbe accresciuta la sua capacità regolatrice, tanto nei confronti dei cittadini quanto dei giudici, con conseguente incremento della certezza e della credibilità del diritto penale e con una riduzione della sua area di intervento, conformemente al suo ruolo di strumento estremo di difesa di beni e diritti fondamentali.

Unanime è stata la condivisione di tali considerazioni da parte dei componenti della Commissione: non sono mancate, tuttavia, nel corso del dibattito, alcune obiezioni. Si è osservato, tra l’altro, che, avendo il codice il rango di legge ordinaria, tale principio sarebbe scarsamente vincolante. A tale considerazione, si è risposto che tale obiezione potrebbe essere estesa anche a molti altri princìpi generali del diritto: basti pensare a quello di tassatività, a quello di offensività o al sistema sanzionatorio che, evidentemente, non può escludere che il legislatore possa introdurre nel nostro ordinamento, come del resto è ripetutamente avvenuto, sanzioni penali diverse da quelle previste dall’attuale art. 17 c.p. Né si può sostenere che la codificazione della riserva di codice non sarebbe normativmente rilevante, in quanto, da un lato, avrebbe la rilevanza che hanno tutti i princìpi generali di diritto stabiliti da leggi ordinarie e, dall’altro, sarebbe quanto meno un freno alla prassi legislativa  di inserire norme penali in leggi speciali e – se non altro per l’interazione che sempre sussiste tra diritto e senso comune – porterebbe, con il tempo, a mutare il significato associato alla riserva di legge, che si tramuterebbe, nel senso comune, in riserva di codice. 

 

V. Principio di offensività

 

La previsione, a livello di legge ordinaria, di una clausola di necessaria offensività è apparsa non solo opportuna ma necessaria anche in un sistema penale completamente riformato, che contenga descrizioni pregnanti dei fatti punibili, in termini di chiara, afferrabile lesione o messa in pericolo di beni significativi: ciò sia per rimediare a sempre possibili scarti tra descrizione legale astratta ed offesa concreta, sia per orientare l’interprete nei casi dubbi (art.3, lettera a).

Il confronto si è sviluppato partendo dall’art. 4 del progetto Pagliaro, ispirato al principio di offensività quale canone ermeneutico di interpretazione della legge penale. Come si legge nella relazione al progetto del 1999, il principio di offensività costituisce “il baricentro di ogni diritto penale non totalitario, poliziesco, liberticida e per ciò è stato assunto come principio regolatore, informatore del nuovo codice”. La finalità di tale principio è duplice: da un lato, di “fondamentale direttrice di politica legislativa” e, dall’altro, di criterio interpretativo delle fattispecie, la cui formulazione deve essere in termini di concreta offensività del bene giuridico (salvo deroghe espresse ammissibili “solo per la prevenzione della lesione di beni primari individuali, collettivi o istituzionali”).

 

 

VI. Irrilevanza del fatto

 

Partendo dalle considerazione in tema di offensività, e dopo essersi soffermata sul dibattito e sulle proposte dei progetti Grosso e Nordio, la Commissione ha dedicato specifiche sessioni di lavoro all’approfondimento del tema e ai riflessi di una sua esplicita accettazione nel sistema penale, concordando sulla funzione del principio di offensività nel duplice momento della formulazione della fattispecie tipica e nel momento dell’applicazione della norma penale.

Il tema dell’offensività ha portato la Commissione ad un approdo ulteriore. La lettera b) dell’art 3 disciplina i casi di scarsa significatività del danno (o del pericolo) in relazione al tipo di interesse tutelato dalla norma penale. Per i fatti connotati da una marginale offensività, è sembrato opportuno offrire la possibilità di pervenire a soluzioni di non punibilità, quando la situazione di fatto legittimi e giustifichi la rinuncia alla applicazione della pena (anche in una ottica di deflazione dei carichi penali). La previsione espressa degli indici fattuali di valutazione - quali la tenuità della offesa al bene giuridico e l’occasionalità della condotta - mira a disciplinare razionalmente l’istituto in questione, peraltro già utilizzato, come è emerso nel corso del dibattito, con una certa ampiezza nella prassi giudiziaria in sede di archiviazione al di fuori di qualunque regolamentazione (salvo i casi previsti dalla legge n. 448 del 1988 e dal decreto legislativo 274 del 2000).

Sulla formulazione di tale norma vi è stato un serrato confronto,che ha portato a modifiche rispetto all’iniziale proposta del relatore (che, ad esempio, faceva riferimento alla “tenuità del fatto” o “alla particolare tenuità dell’offesa”). Secondo alcuni Commissari vi può essere “irrilevanza del fatto” solo se è da considerarsi “bagatellare” non solo la tenuità dell’offesa ma anche la modalità della condotta: proprio per questo, ed allo scopo di evitare sia una interpretazione eccessivamente restrittiva sia una interpretazione indebitamente estensiva, è stata proposto che le varie circostanze in astratto ipotizzabili fossero indicate non quali “condizioni” ma quali “criteri di valutazione” (es. “il fatto non è punibile qualora sia ritenuto irrilevante; la valutazione della sua irrilevanza deve essere motivata in base alla sua tenuità, o alla minima entità del danno, o alla natura, alla specie, all’oggetto, al tempo, al luogo o ad altre modalità dell’azione”). Si è anche proposto di inserire il requisito dell’assenza di violenza o minaccia alla persona. La  Commissione ha ritenuto, trattandosi di progetto di delega (e rimandando una ulteriore riflessione al termine dei lavori di parte speciale), di limitarsi all’indicazione della tenuità dell’offesa e dell’occasionalità della condotta, rimettendo in ogni caso al legislatore delegato (o al legislatore delegante) ogni ulteriore valutazione sulla opportunità, o necessità, di indicare parametri specifici e più tassativi.

 

 

 

 

VII. Principio di colpevolezza

 

Uno degli elementi qualificanti dello schema di legge delega è costituito dall’attuazione del principio di colpevolezza quale principio desumibile, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale fin dalla sentenza 364/88, dall’art. 27, comma 1 della Costituzione. La Commissione - in piena consonanza con l’opinione, ormai unanime in dottrina, per la quale il principio di colpevolezza costituisce uno dei princìpi fondanti del diritto penale – ha ritenuto che la “colpevolezza” non potesse non assumere, nel nuovo sistema penale, un ruolo garantistico fondamentale, in quanto determina l’esclusione della possibilità di perseguire una condotta senza prendere in considerazione, in tutte le sue asfeccettature. la situazione soggettiva in cui si sia trovato l’autore del fatto. 

Il principio di colpevolezza esige innanzitutto che non sia punibile chi non abbia violato alcun comando normativo e chi non sia stato nella condizione di poterlo adempiere. Del pari esclude che possano rilevare, ai fini del giudizio di responsabilità penale, elementi della personalità o dell’ambiente di vita che non abbiano attinenza al fatto commesso (e che dunque non concorrano a delineare la c.d. “colpevolezza del fatto”). Sul punto è stata del resto tassativa la Corte Costituzionale allorché ha precisato che “dal collegamento tra il primo e il terzo comma dell’art. 27 Cost.” emerge “insieme con la necessaria rimproverabilità soggettiva della violazione normativa, l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i valori della convivenza, espressi dalla norma penale”.

 

 

VIII. Efficacia della legge penale nel tempo

 

Dopo aver stabilito la irretroattività delle norme incriminatici e la retroattività della legge penale più favorevole, il progetto  prevede una articolazione delle diverse ipotesi di abolizione di incriminazioni precedenti (nessuno può essere punito per un fatto non più previsto dalla legge come reato;  in caso di condanna irrevocabile, ne debbono cessare l’esecuzione e gli effetti penali). In caso di modifica di leggi si deve applicare quella in concreto  più favorevole, sempre che la sentenza di condanna non sia già passata in giudicato: in tal caso, se la legge successiva prevede una pena di durata minore o di specie meno afflittiva, la pena deve essere rideterminata (art. 6, lettera c).

         Altra questione dibattuta è stata quella relativa ai casi di modificazioni “mediate” della norma incriminatrice, al momento che è ancora controversa la questione se ricorra o meno una situazione di “successione” nell’ipotesi di abrogazione di una norma richiamata dalla legge penale. La Commissione ha ritenuto di fornire una risposta affermativa in considerazione sia del rapporto di integrazione tra norme incriminatrici e norme richiamate, per cui il precetto penale risulta dalla combinazione delle distinte fonti, sia del principio di eguaglianza che impone parità di trattamento giuridico-penale per lo stesso fatto. Si è così stabilito che la normativa sulla successione delle leggi nel tempo si applichi anche quando siano modificate o abrogate leggi diverse da quelle penali integratrici del precetto.

         Pur non esistendo dissensi sul punto, è apparso opportuno specificare che  le leggi eccezionali e quelle temporanee debbano essere sottratte alla disciplina della successione delle leggi penali nel tempo. Si è altresì estesa, con una esplicita equiparazione, la disciplina sopra richiamata alle situazioni conseguenti alla dichiarazione di illegittimità costituzionale, in quanto gli effetti delle pronunce di incostituzionalità non sono assimilabili  a quelli propri del meccanismo regolatore delle vicende modificatrici della legge penale (art. 6 lettera e).

Per quanto concerne la non conversione di decreti leggi contenenti disposizioni penali, o la conversione con modifiche, la Commissione aveva inizialmente approvato una direttiva per cui, in caso di mancata conversione, per i fatti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge, e in caso di conversione con emendamenti, limitatamente alle disposizioni emendate, si dovessero applicare le  disposizioni più favorevoli. Successivamente si è ritenuto, pur con opinioni dissenzienti, di non inserire specifiche indicazioni relative alla decretazione d’urgenza, sia per la contrarietà di carattere generale rispetto ad interventi in campo penale mediante decreto legge – su cui sussistono anche fondati dubbi di legittimità se solo si considera la previsione del secondo comma dell’art. 25 Cost., che sancisce un principio regolatore delle fonti i produzione normativa in materia penale prevedendo una riserva assoluta di legge - sia in quanto è ormai unanime l’orientamento, della giurisprudenza costituzionale e della dottrina,  nel senso di ritenere che i princìpi della successione delle leggi penali si applichino anche in caso di non conversione del decreto legge, o di conversione con emendamenti (cfr. sent. n. 51/1985 Corte Cost.).

 

 

IX. Efficacia della legge penale nello spazio

 

Per quanto concerne l’attuale disciplina della legge penale nello spazio, oltre ad aggiustamenti di ordine terminologico, si sono ritenuti necessari alcuni interventi modificativi in relazione alle seguenti problematiche.

         Quella derivante dall’art. 4, n. 7 lett. a) e b) della Decisione Quadro 2002/584/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 13.6.2002 recepita dall’art. 18, lett. p) della legge 22 aprile 2005 n. 69, secondo la quale la Corte d’Appello rifiuta la consegna della persone nei confronti della quale è stato emesso un mandato d’arresto europeo “se riguarda reati che dalla legge italiana sono considerati reati commessi in tutto o in parte nel suo territorio, o in luogo assimilato al suo territorio; ovvero reati che sono stati commessi al di fuori del territorio dello Stato membro di emissione, se la legge italiana non consente l'azione penale per gli stessi reati commessi al di fuori del suo territorio”.

Tale previsione ha imposto la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di dare attuazione al principio di territorialità e quella di estendere l’applicabilità della legge penale italiana anche ai reati commessi al di fuori del proprio territorio relativi a fatti di “criminalità di Stato”, a interessi primari e a fenomeni criminali tipicamente transnazionali. L’attuale disciplina (c.d. “principio di ubiquità”) non è  stata condivisa - soprattutto in relazione ai casi di concorso di persone nel reato – nella parte in cui fa riferimento, nell’art. 6 del codice vigente, al luogo in cui è avvenuta “parte” dell’azione. Si è ritenuto quindi di specificare che il reato si debba considerare commesso in Italia quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è in tutto, o in parte rilevante, posta in essere nel territorio dello Stato ovvero nel territorio dello Stato si è verificato l’evento (art. 7, lettera d)

Si è poi affrontato il delicato tema della “doppia incriminazione”. Nell’attuale disciplina è controverso se per la procedibilità dei delitti comuni commessi all’estero, occorra, nonostante il silenzio del legislatore, che il fatto sia preveduto come reato anche dalla legge dello Stato in cui il fatto è avvenuto. Per evitare dubbi o incertezze interpretative si è inserito esplicitamente il principio della doppia incriminazione, anche quale tutela, sia pure di riflesso, del principio di legalità: lo straniero, infatti, deve essere posto in grado di sapere  che il fatto costituisce un illecito penale nel luogo dove lo ha commesso. Ne consegue che la doppia incriminazione deve essere prevista anche per i reati commessi all’estero dal cittadino. In caso contrario si avrebbe una ingiustificata sperequazione proprio ai danni del cittadino (il che ha fatto ritenere quantomeno opportuno estendere la necessità della doppia incriminazione anche alle ipotesi di cui all’attuale art. 9 c.p.).

La Commissione ha ritenuto, da un lato, di estendere anche il principio del “ne bis in idem” che rappresenta, nonostante non sia stato ancora elevato a principio di diritto internazionale, un obiettivo di giustizia sostanziale, con la previsione di limitazioni alla perseguibilità in Italia di fatti già definitivamente giudicati all’estero e, comunque, di stabilire che la condanna già scontata sia sempre computata. E, dall’altro, di non prevedere una norma analoga all’attuale art. 8 c.p. Se l’estensione dell’applicabilità della legge penale italiana a tutti i reati classificabili come soggettivamente o oggettivamente politici aveva la finalità di salvaguardia di un regime dittatoriale,  tale scelta non può avere alcuna attualità, con la conseguenza di collocare la disciplina del reato politico nell’ambito di una specifica legge sull’estradizione. Ci si è orientati, pertanto, per una eliminazione radicale della disciplina di cui all’attuale art. 8 c.p.

Passando ad esaminare l’articolato, l’art. 7 tende a definire i reati che si considerano commessi nel territorio dello Stato e quindi risultano incondizionatamente assoggettati alla legge italiana. I primi due commi riproducono sostanzialmente l’art. 3 del c.p. vigente con le seguenti modificazioni ed aggiunte: a) l’inciso “cittadini o stranieri” è stato omesso in quanto pleonastico e comunque non comprensivo degli apolidi; b) la espressione “obbliga” è stata sostituita con il termine “applica”; c) si è fatto riferimento al diritto comunitario che contiene espressamente norme sulla immunità dei propri organi. La lettera c) ripropone l’equiparazione di navi ed aeromobili al territorio dello Stato. E’ stata eliminata ogni definizione di territorio dello Stato e di cittadino, competenza di altre branche del diritto. La lettera d) precisa che il reato si deve  considerare commesso nel territorio dello Stato quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è in  tutto, o in parte rilevante, commessa nel territorio dello Stato o ivi si è verificato l’evento. Dopo ampia discussione, si è inteso specificare che, per  ritenere che il reato sia stato commesso in Italia, l’azione o l’omissione debba essere stata posta in essere nel nostro paese almeno “in parte rilevante”, onde evitare, dato il principio di obbligatorietà dell’azione penale, che si debba procedere per fatti rispetto ai quali in Italia la “parte di azione od omissione” sia stata minimale o, in ogni caso, irrilevante (regola che, evidentemente, non si applica allorché, nel nostro territorio, si sia verificato l’evento).

L’art. 8 disciplina l’applicabilità delle legge italiana ai reati commessi all’estero equiparando gli interessi dello Stato italiano e quelli dell’’Unione Europea”. Nel primo comma si prevede la punibilità, con esclusione del principio della doppia incriminazione, di chiunque commette all’estero reati che ledono interessi primari, con una norma di chiusura che rinvia a norme speciali, comunitarie e internazionali. Il secondo comma fa riferimento ai reati di genocidio, di tortura e ai crimini di guerra o contro l’umanità. In questi casi, la Commissione si è ispirata al principio universalistico con il superamento della doppia incriminazione e con il tentativo di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di eliminare qualunque impunità per tali crimini e la necessità di non incidere eccessivamente nella possibilità di relazioni internazionali: in particolare si è prevista l’applicabilità della legge italiana sia ai cittadini che agli stranieri, anche se tali reati sono stati commessi all’estero, subordinando, se il reato è stato commesso da uno straniero, la procedibilità alla sua presenza nel territorio dello Stato. E’ stata altresì prevista la richiesta del Ministro della Giustizia nei casi in cui lo straniero sia capo di Stato o membro di Governo. Il terzo ed il quarto comma fanno riferimento  ai reati  commessi all’estero rispettivamente dal cittadino e dallo straniero, subordinando l’applicazione della legge italiana non solo al principio della doppia incriminazione ma anche a soglie di gravità, con la previsione di ulteriori requisiti quali la presenza nel territorio dello Stato o la richiesta del Ministro della Giustizia o l’istanza o querela della persona offesa.

La Commissione, condividendo l’osservazione dell’Ufficio legislativo, ha ritenuto che la disciplina relativa al “rinnovamento del giudizio” – nei casi in cui si ritiene che il reato sia stato commesso in territorio italiano ma la persona è stata già giudicata all’estero (art.11 del codice vigente) -  non sia norma di carattere sostanziale e debba quindi trovare collocazione nel codice  di rito, la cui riforma è stata demandata ad una apposita Commissione ministeriale, presieduta dal prof. Giuseppe Riccio. Si è però voluto specificare, onde evitare equivoci, che, in tali casi, dovranno essere sempre computati i periodi di pena detentiva e di custodia cautelare sofferti all’estero (art. 34, comma 2).

Per quanto concerne l’estradizione, questa non potrà essere concessa qualora vi sia ragione di ritenere che l’imputato o il condannato possano essere sottoposti ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, religione, nazionalità, lingua, genere, orientamento sessuale, opinioni politiche, condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti o, comunque, ad atti che configurino violazione di diritti fondamentali della persona. L’estradizione non potrà essere altresì concessa nei casi in cui, per il reato per il quale è domandata, sia prevista, dalla legge dello Stato estero, la pena di morte (art. 9). Non si è ritenuta sufficiente, anche sulla base della sentenza della Corte Costituzionale n. 223/2006, l’assicurazione dello Stato estero che la pena di morte non sia infitta o, se inflitta, non sia eseguita.

 

                                           

X. Il reato

 

Dopo ampia discussione, e un doveroso approfondimento di diritto comparato, la Commissione, a stretta maggioranza, ha ritenuto di superare la distinzione tra delitti e contravvenzioni. La decisione su tale tema, di cui si è iniziato a discutere fin dalle prime riunioni, è stato rinviata, data la delicatezza della problematica e la diversità di opinioni, alla fase finale dei lavori di parte generale, dopo la discussione e l’approvazione delle norme relative all’elemento psicologico del reato, al tentativo, al sistema sanzionatorio.

Nel dibattito sono emerse valide argomentazioni sia a favore che contro il mantenimento dell’attuale dicotomia delitti-contravenzioni. Diversità di opinioni che, come emerge dalle relazioni dei progetti Grosso e Nordio, si erano già manifestate nelle precedenti Commissioni. 

La Commissione Grosso aveva optato per il mantenimento dell’attuale distinzione, sostanzialmente per le seguenti considerazioni:

a) pericolo di un appesantimento della categoria dei delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività;

b) persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata);

c) esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti;  

d) validità del modello di reato contravvenzionale individuato, in adesione a quanto previsto dal progetto Pagliaro, nei reati relativi a violazione di regole cautelari, in quelli integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza e nei fatti di ridotta offensività.

         La Commisione Nordio era invece pervenuta, a larga maggioranza, a diversa conclusione. I principali motivi che avevano determinato tale decisione sono stati sostanzialmente tre:

a)     residualità del diritto penale: il diritto penale  è infatti  incompatibile con le fattispecie rappresentative di comportamenti assiologicamente neutri, o comunque di scarsa valenza antisociale;

b)    presa d’atto che l’attuale catalogo dei reati contravvenzionali  non ubbidisce a ragionevoli criteri  di differenziazione rispetto ai delitti: da un lato, infatti, vi sono delitti puniti  con la sola pena pecuniaria e dall’altro contravvenzioni per cui è prevista la pena detentiva; vi sono delitti perseguibili a querela e contravvenzioni perseguibili d’ufficio. Il che, come si legge nella relazione, “rivela una visione contraddittoria che impone una riduzione ad armonia ed equità”;

c)     assoluta ineffettività della sanzione, neutralizzata dall’inevitabile prescrizione, che impone la depenalizzazione dei reati bagattellari quale scelta coerente e doverosa rispetto all’impianto complessivo del progetto di nuovo codice penale.

Sulla base di tali considerazioni, la Commissione Nordio aveva anche iniziato una ricognizione  dei reati contravvenzionali contenuti nel codice e nello sterminato ambito delle leggi speciali, proprio al fine di evitare l’abrogazione o la depenalizzazione di condotte che dovevano mantenere una rilevanza penale, ma tenendo conto della decisione, auspicata da più parti, di mirare ad una coerente riduzione della sanzione penale alle sole  violazioni rilevanti in chiave di pericolosità, sia pure in uno stadio anticipato, perseguendo quel cosiddetto diritto penale minimo “volto ad  assicurare efficacia al principio di legalità e maggiori garanzie contro l’arbitrio e l’errore”.

La Commissione, come detto, si è confrontata a lungo sulle ragioni che avevano portato i precedenti progetti a scelte diverse. Uno dei motivi addotti a sostegno dell’eliminazione dell’attuale distinzione tra delitti e contravvenzioni, e che si è aggiunta a quelle già evidenziate dalla Commissione Nordio, è stata quella della coerenza col principio di colpevolezza e con la conseguente necessità di evitare qualsiasi tipo di responsabilità di carattere oggettivo o, come invece spesso avviene per le contravvenzioni, senza una valutazione dell’elemento psicologico del reato.  

            In numerosi interventi, inoltre, è stato rilevato come, alla fine, l’unica distinzione tra delitti e contravvenzioni (non solo di fatto ma anche nell’analisi delle Commissioni che avevano ritenuto di mantenere l’attuale assetto), si trovi nella diversa specie delle pene stabilite. Da parte di numerosi commissari si è inoltre osservato come - in presenza di contravvenzioni che hanno una effettiva e reale funzione preventivo-cautelare per beni particolarmente rilevanti - non sia più procrastinabile la loro trasformazione in “delitti”; e come, invece, per molte delle attuali contravvenzioni, non vi siano validi motivi per mantenerle nell’ambito penale, con il vantaggio non solo di decongestionare, semplificare e razionalizzare il sistema penale ma anche di contribuire ad una accelerazione dei tempi processuali.

Nel corso della discussione non è stata affatto sottovalutata la difficoltà di esaminare il complesso delle contravvenzioni presenti in leggi speciali, per valutare quali trasformare in delitti e quali depenalizzare. Si è ritenuto, tuttavia, che, sulla base del decreto istitutivo della Commissione, alla stessa spettasse il compito di fare una proposta limitata alle contravvenzioni contenute nel libro III del codice, e che si dovesse prevedere una norma transitoria per le contravvenzioni contenute in leggi speciali e, contemporaneamente, una delega specifica, con tempi ragionevolmente più lunghi, per quelle previste da leggi speciali. In tale direzione si era mossa anche la commissione Nordio che aveva individuato alcuni criteri di carattere generale: depenalizzazione di tutte le contravvenzioni per le quali è prevista la sola pena pecuniaria e inserimento nel codice di reati a tutela, ad esempio, di beni quali la sicurezza sul lavoro, l’ambiente, l’urbanistica.  

 

 

XI. Soggetto attivo, condotta, evento e nesso di causalità

 

Soggetto attivo può essere sia il titolare di particolari doveri o poteri giuridici specificamente attribuitigli al momento del fatto sia chi, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto tali poteri (art. 12, lettra a). L’art. 12 stabilisce che nessuno possa essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l’abbia posta in essere con coscienza e volontà, salvo i casi di forza maggiore o costringimento fisico: in tali casi risponde del reato l’autore della violenza (lettera c).

La Commissione ha ritenuto di dover prevedere ancora questo primo livello di imputazione soggettiva del fatto, comune al dolo e alla colpa, senza però inserire nel novero dei fattori che escludono la coscienza e la volontà della condotta il caso fortuito, concetto poco preciso e di incerta collocazione sistematica.

Per quanto concerne il nesso di causalità, si è fatto riferimento – per stabilire la regola generale - al concetto di “condizione necessaria”, mutuandolo dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno maggiormente sottolineato, da un lato, la necessità, derivante dal principio di legalità, della ricostruzione del rapporto tra condotta ed evento a leggi scientifiche di copertura e, dall’altro, il fatto che l’evento in questione deve essere quello che si è verificato in concreto, con l’esclusione di ogni livello della cd. “causalità alternativa ipotetica”.

La Commissione, anche recependo specifici stimoli dottrinari ribaditi in vari convegni giuridici (tra cui quello di Siracusa), ha ritenuto tuttavia necessario introdurre alcune linee guida relative alla tematica, ulteriore rispetto a quella del rapporto condizionalistico, del nesso di imputazione giuridica tra condotta ed evento. Quando si tratta di assegnare il carattere di tipicità ad una condotta in funzione della causazione dell’evento – e quindi in tutti i reati di evento – il passaggio da compiere deve essere duplice: è necessario innanzitutto ravvisare il rapporto di causalità materiale e, successivamente, valutare se, anche dal punto di vista del diritto, il riscontrato rapporto sussista: ne consegue la necessità di indicare i parametri giuridici attraverso i quali operare la “selezione” e formulare l’imputazione oggettiva. Sul punto il dibattito in Commissione è stato particolarmente acceso, in quanto, da parte di alcuni commissari, si è sostenuto l’inutilità e l’improprietà del riferimento al concetto di “fattore eccezionale” e, da parte di altri, la pertinenza del rischio al tema soggettivo del reato. Si è giunti infine giunti alla formulazione delle lettere e) ed f) del primo comma dell’art. 12, con l’intento di consentire al giudice di operare una valutazione sia della qualità della condotta tenuta (ex ante), sia delle  modalità concrete del riscontrato decorso causale (ex post), nella convinzione che il diritto non possa considerare rilevanti né fattori causali non dominabili (o perché imprevedibili o perchè giuridicamente riconducibili in maniera integrale alla sfera “di signoria” di altri soggetti), né condotte palesemente inidonee o non tali da creare o accrescere il rischio di cui l’evento costituisce attualizzazione.

La controversa figura del reato omissivo improprio è stata regolata (commi 2 e 3 dell’art.12), con una soluzione che ha inteso superare non solo l’ermetica formula dell’ art. 40, comma 2 del vigente codice, accogliendo gli stimoli provenienti soprattutto dalla dottrina sulla necessità di colmare il deficit di tipicità e legalità che la materia dell’omesso impedimento dell’evento presenta; ma anche evitare una rigida tipizzazione delle posizioni di garanzia, nella convinzione che tale opera di tipizzazione competa alla normativa del settore e mal si accordi con le clausole di disciplina “generale” che un codice deve fornire nella parte generale.   

Col secondo comma dell’art. 12 si equipara, quindi, il non impedire l’evento al cagionarlo, con una significativa modifica rispetto al codice vigente: da un lato, vi deve essere stata violazione di un “obbligo attuale” di garanzia del bene giuridico e, dall’altro, il titolare dell’obbligo di garanzia deve avere i poteri giuridici e di fatto idonei a impedire l’evento. L’obbligo di garanzia, inoltre, deve essere istituito dalla legge o, nei limiti indicati dalla legge, essere specificato da regolamenti, provvedimenti della pubblica autorità, ordini o atti di autonomia privata. Il terzo comma 12 indica i presupposti per ritenere validamente trasferito l’obbligo di garanzia (si è deciso di rinviare alla parte speciale l’eventuale previsione di uno specifico reato di omissione di sorveglianza connessa alle organizzazione dell’impresa).

La materia risulta quindi sensibilmente arricchita rispetto alla scarna “clausola di equivalenza” presente nel codice vigente. Tuttavia, le esigenze di legalità e tipicità prese giustamente in considerazione dalle precedenti Commissioni sono state soddisfatte, senza ricorrere ad elencazioni, potenzialmente incomplete, delle posizioni di garanzia, ma prevedendo che l’obbligo di garanzia sia comunque istituito per legge. Tale requisito restringe notevolmente il campo applicativo della figura omissiva impropria, che oggi si muove invece liberamente all’interno dell’ampio terreno contrassegnato dalla mera “giuridicità” dell’obbligo di impedimento: con  la proposta formulata, le fonti extralegali potranno solo regolamentare le “vicende” della posizione di garanzia, ma non istituirla. Rilevante è anche la previsione per cui gli obblighi di mera vigilanza possono avere rilevanza penale solo se la loro inosservanza sia espressamente prevista dalla legge come reato omissivo proprio (lettera b, comma 3) 

         La Commissione, tenendo conto anche di quanto previsto dal progetto Grosso, ha invece ritenuto opportuno regolamentare la responsabilità per i reati commessi col mezzo della stampa o della radio-televisione (art. 12, comma 4): nei casi in cui l’autore non sia stato individuato o non sia punibile per qualsiasi motivo, e non vi è concorso doloso nel reato, risponde del reato, a titolo di colpa, chi, in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell’impresa, ha il dovere di controllo della pubblicazione o della trasmissione e, per colpa, non ha impedito la realizzazione del reato. Nel corso della discussione è stata avanzata anche la proposta, particolarmente apprezzata, di prevedere una norma generale in caso di concorso colposo nel reato doloso. A maggioranza si è deciso di regolamentare, nella parte generale, data la loro specificità, solo i casi di responsabilità per i reati commessi col mezzo della stampa o della radio-televisione. Ampio è stato invece il consenso sulla proposta di prevedere, quando l’autore del reato non è individuato o non è punibile, la punibilità a titolo di colpa di chi ha il dovere di controllo e, per colpa, non ha impedito la realizzazione del reato. Non ha trovato accoglimento la proposta di prevedere lo stesso trattamento anche nei casi in cui sia stato identificato, e sia punibile, l’autore del reato.   

 

 

 

 

 

XII. Dolo, colpa, colpa grave (art.13)

 

Il ripudio della responsabilità oggettiva, che aveva già trovata ampia convergenza nei più recenti progetti di riforma, ha portato la Commissione a prevedere, quali unici titoli di imputazione soggettiva, il dolo e la colpa, con esclusione di qualsiasi ipotesi di responsabilità preterintenzionale: il che non significa, evidentemente, impunità per condotte che oggi hanno una loro specifica collocazione nel codice (es. omicidio preterintenzionale), ma  significa ricondurre tali condotte al concorso di reati tra il fatto-base doloso e l’ulteriore fatto più grave, imputabile a colpa dell’agente.

Già il Progetto Pagliaro, all’art.12, prevedeva di “escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole, prevedendo due sole forme di imputazione: il dolo e la colpa”. Il Progetto Grosso, all’art.25, ha stabilito che “la colpevolezza dell'agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale” e che “ nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come delitto se non lo ha realizzato con dolo, salvi i casi di delitto colposo espressamente previsti dalla legge”. L’art. 19 del Progetto Nordio prevede che “nessuno possa  essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di reato colposo espressamente previsti dalla legge”.

         La Commissione ha pressoché unanimemente condiviso le seguenti considerazioni preliminari:

a) che fossero maturi i tempi di una definitiva messa al bando della responsabilità oggettiva, non solo nelle forme espresse, ma anche in quelle “occulte” e, quindi, più insidiose;

b) che, in tale materia, formulazioni contenute in norme definitorie hanno comunque una ridotta capacità di incidenza sugli orientamenti giurisprudenziali;

c) che, quanto al dolo, andrebbe contrastata l'attuale tendenza giurisprudenziale a svalutare la componente volontaristica del nesso psichico e a  privilegiare l’instaurazione di un vorticoso processo di oggettivizzazione e di normativizzazione, che riduce il dolo a componente estremamente malleabile sul piano applicativo e quindi facile terreno di coltura per scorciatoie probatorie, soprattutto nel concorso di persone;

d) che vi sia una tendenza all’appiattimento della colpa specifica sulla responsabilità oggettiva, anche in quanto la giurisprudenza tende a non riscontrare il nesso di imputazione tra condotta ed evento, nonché il grado di esigibilità dell’osservanza della regola cautelare violata; che tale tendenza determina, non raramente, una “trasformazione” della  colpa specifica in colpa generica mediante l'impiego di clausole generali a sfondo cautelare, con la rinuncia di fatto al controllo di prevedibilità in concreto dell’evento e con la liquidazione del principio di affidamento sulla base del  “convincimento” che questo non possa essere invocato da chi viola una regola cautelare;

e) che una vera rivoluzione copernicana si potrebbe attuare solo introducendo una terza tipologia di elemento soggettivo, intermedia tra quelli che oggi chiamiamo dolo e colpa e mutuata dall’esperienza inglese della “reklesness”, ed incentrata sul carattere sconsiderato della condotta posta in essere dal reo, in modo non dissimile da quanto realizzato in Francia a proposito della “mise en danger”: scelta che porterebbe a distinguere l’area della “volontà del fatto” dall’area della “volontà del (mero) rischio del fatto” e ciascuna di queste due dall’area della “non volontà” dell’uno e/o dell’altro;

f) che tuttavia tale scelta non è ad oggi realizzabile, sia in quanto la distinzione tra “volontà del fatto” e “volontà del mero rischio del fatto” non sempre è agevole, in quanto comporta per il giudice la difficoltà di spiegare perché chi ha così intensamente voluto il rischio del fatto in realtà non ha voluto il fatto e chi si è rappresentato il fatto in maniera sbiadita ciò nondimeno lo abbia voluto; sia in quanto neppure la distinzione a livello inferiore è spesso così marcata e razionalmente giustificata (basti pensari all'incerta collocazione dei casi di dubbio sulla consistenza della regola cautelare, sulla sua operatività e sulla sua portata), con il conseguente rischio di fare una scelta che, da un lato, finirebbe per rendere ancora più difficile l’accertamento dell’elemento psicologico del reato e, dall’altro, finirebbe per comportare una reazione negativa anche in considerazione del non particolare  apprezzamento nel nostro Paese, da parte della dottrina e degli operatori del diritto, del sistema tripartito.

 

Nella consapevolezza, dunque, che un codice non debba imporre scelte di élite, ma debba limitarsi a registrare cambiamenti sufficientemente maturati nell’esperienza giuridica, la Commissione si è mossa sulla linea tradizionale della dicotomia delle forme di imputazione soggettiva: una incentrata sulla effettiva volontà del fatto da parte dell'agente (dolo), l’altra sulla sua non volontà e sulla contemporanea violazione della diligenza esigibile dall'agente nella situazione concreta (colpa).

In ordine alla formulazione scelta per definire il reato doloso, l’allontanamento dalla vigente definizione si misura nella chiarificatrice sostituzione dell’evento, quale oggetto del dolo, con il fatto costitutivo di reato e nella soppressione dell’inciso “secondo l’intenzione”, che non può non apparire distonico in un sistema in cui hanno cittadinanza, all'interno del modello doloso, anche forme non intenzionali (il reato è doloso quando l’agente si rappresenta concretamente e vuole il fatto che lo costituisce - art. 13 lettera b).

Tale carattere è ribadito nella definizione che la Commissione, pur nella varietà estrema delle posizioni espresse dai singoli componenti, e dopo una iniziale propensione a escludere espressamente la possibilità di responsabilità per “dolo eventuale”, ha infine deciso di adottare con riguardo al dolo eventuale (art. 13 lett. c). In proposito va sottolineata come, in tali casi, la rappresentazione del fatto debba materializzarsi nei termini dell'alta probabilità e come l'accettazione dello stesso non possa essere dal giudice automaticamente ricavata da tale mero stato intellettivo, imponenendo invece uno sforzo di autonoma ricostruzione che si fondi su ulteriori elementi indicativi. La previsione di una attenuante facoltativa consente al giudice di pervenire, nei casi limite, ad una souzione tollerabile sul piano della giustizia sostanziale, stemperando la radicalità delle conseguenze di una scelta decisoria che può a volte presentarsi come estremamente problematica (art. 13 lettera c).    

Un più evidente tratto di innovazione caratterizza la scrittura della norma relativa alla definizione del reato colposo. A parte il richiamo alla non volontà del fatto costitutivo di reato, che conferma la posizione della colpa in un territorio esattamente contrapposto a quello del dolo, la disposizione ha cura di esplicitare i distinti passaggi che debbono guidare l’interprete nell’accertamento di tale elemento psicologico, menzionando, accanto alla violazione di una regola cautelare, la prevedibilità ed evitabilità del fatto commesso, allo scopo di impedire intollerabili sovrapposizioni tra responsabilità colposa e responsabilità oggettiva. Nel prevedere una rimproverabile corrispondenza tra il fatto verificatosi e quello da evitare, si è espressamente esclusa una responsabilità nei casi in cui l’evento cagionato non rientri tra quelli che la regola cautelare violata mirava specificamente a prevenire (art. 13, lettera d: “il reato è colposo quando il fatto che lo costituisce non è voluto dall’agente e questi lo realizzi come conseguenza concretamente prevedibile ed evitabile dall’inosservanza di regole di diligenza, di prudenza o di perizia ovvero di regole cautelari stabilite da leggi, regolamenti, ordini o atti di autonomia privata”).

La novità più rilevante riguarda la previsione della figura della colpa grave, con conseguente abbandono della c.d. colpa cosciente come ipotesi aggravata di colpa. In proposito si è constatato come la colpa cosciente (o con previsione) non rappresenta necessariamente una forma più grave di colpa, potendo la colpa incosciente risultare, a seconda delle circostanze, comparativamente più grave della colpa cosciente (è ben plausibile infatti considerare più grave il fatto di chi, per sconsideratezza, negligenza o indifferenza, ignora le più elementari cautele in una situazione di evidente pericolosità, rispetto a quello di chi si rappresenta una remota possibilità di verificazione di un evento lesivo). Si è dunque incentrato il nucleo della maggior gravità della colpa nella “particolare rilevanza” dell’inosservanza delle regole cautelari o della pericolosità della condotta (sul presupposto di una sua misurabilità): dati che, nella loro evidenza, si sono riflessi nella sfera dell'agente e che, comunque, costui avrebbe dovuto agevolmente percepire, sicché è elevato anche il grado di colpevolezza (art. 13, lettera f).

Mentre, nel codice vigente, la figura della colpa cosciente si risolve unicamente in una aggravante del reato colposo, nel presente progetto la colpa grave rappresenta una nozione a cui, in alcuni settori, la Commissione pensa di agganciare la condizione della incriminazione stessa del reato colposo. A ben vedere, infatti, l’opportunità politico-criminale di far dipendere lo stesso “an” della punibilità dalla presenza di una colpa grave dovrebbe essere presa seriamente in considerazione nel ripensare i modelli di disciplina penale di alcuni settori tecnicamente complessi, notoriamente caratterizzati dalla difficoltà di prova del nesso causale e, nel contempo, dall’esigenza di bilanciare in maniera equilibrata l’esigenza del controllo penale col mantenimento di adeguati margini di libertà di azione (emblematico, com’è facile intuire, il settore della responsabilità medica; si pensi anche al settore della criminalità economica).

Sotto altro versante, la colpa grave potrebbe costituire una ipotesi di aggravamento per talune fattispecie colpose (si pensi, ad esempio, agli omicidi colposi da incidente stradale commessi da soggetti in stato di ubriachezza), consentendo, da un lato, un maggiore rigore sanzionatorio ed evitando, dall’altro, proprio in ragione dell’inadeguatezza della sanzione, di “scivolare” verso il dolo eventuale.   

 

 

XIII. Ignoranza ed errore

 

La disciplina dell'errore e dell’ignoranza è stata riunita in un unico articolo, calibrato sui possibili oggetti dell'errore o dell'ignoranza (art.14). Con la lettera a) del primo comma si è inteso ribadire, onde evitare diverse interpretazioni, che l’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la responsabilità a titolo di dolo (anche se tale conclusione ben si poteva ricavare dalla stessa definizione di dolo come esplicitata all’art. 13). Tale proposizione in positivo consente anche di chiarire che non vi può essere responsabilità a titolo di dolo nei casi in cui l’errore sul fatto derivi da errore su legge extrapenale. La Commissione ha inteso ribadire con forza che la responsabilità dolosa debba essere esclusa in tutti i casi in cui vi sia errore sul fatto di reato, non solo nei casi in cui l’errata rappresentazione riguardi direttamente dati fattuali, ma anche allorché riguardi qualificazioni normative del fatto stesso.

Quanto alle cause di giustificazione e alle cause soggettive di esclusione della responsabilità, la disciplina introdotta non è dissimile da quella attuale (esplicita o comunque mutuata dal diritto vivente). In particolare la lettera b) del primo comma art. 14 prevede che l’erronea supposizione di una causa di giustificazione escluda il dolo anche nel caso in cui derivi da errore su legge diversa da quella penale, ancorché avente ad oggetto qualifiche giuridiche o elementi normativi. 

Quanto all'errore sul precetto penale si è mantenuta la disciplina prevista dall'art. 5 del codice vigente, come interpretato dalla Corte Costituzionale, esplicitando i casi di errore scusabile, in linea con le indicazioni contenute nella sentenza n. 364/88. Per temperare le conseguenze che una simile disciplina può determinare in relazione ai reati dolosi, nei casi in cui l'errore o l'ignoranza siano rimproverabili in quanto dovuti a negligenza – per cui, in definitiva un rimprovero di culpa iuris finisce per fondare la responsabilità dolosa – il progetto prevede la possibilità, per il giudice, di diminuire la pena qualora si convinca che l'agente si sarebbe astenuto dalla commissione del reato se si fosse realmente reso conto della sua illiceità penale.

Su tale scelta ha indubbiamente influito l’esame delle legislazioni straniere, da cui è emerso che la previsione di una diminuzione di pena (in misura anche maggiore rispetto a quella prospettata), è presente in molti ordinamenti stranieri. In Germania, ad esempio, si applica una diminuzione tale per cui il minimo della pena applicabile è di due anni di reclusione per reati puniti nel minimo con 5 o 10 anni; di 6 mesi per reati puniti nel minimo con 2 o 3 anni; 3 mesi per reati puniti nel minimo con un anno; il massimo non può superare i tre quarti del massimo edittale (§49); in Norvegia la pena può essere fissata sotto il minimo previsto per il reato commesso e può consistere in una pena di specie diversa. In casi particolari il giudice può anche decidere per il proscioglimento.

 

 

XVI. Cause oggettive di giustificazione - cause soggettive di esclusione della responsabilità

 

Ampia è stata la discussione sull’opportunità di prevedere una distinzione tra “cause oggettive di giustificazione” e “cause soggettive di esclusione della responsabilità” (artt.15 e 16). La Commissione si è espressa unanimemente per la decisione – già presente nei  progetti Pagliaro e Nordio – di distinguere le cause di giustificazione (scriminanti) dalle cause soggettive di esclusione della responsabilità (scusanti), tenendo conto anche della più recente elaborazione dottrinale e dell’ opportunità di ancorare la normativa interna alle prospettive tratte dalle fonti internazionali, alle più significative esperienze di altri ordinamenti e alla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Tale impostazione è fortemente innovativa rispetto alla sistematica dell’attuale codice che finisce con l’inquadrare, nell’ambito  della generica categoria delle cause di esclusione della pena, fattispecie tra loro eterogenee, che vanno dalla incapacità di intendere e volere fino alla mera esenzione personale dalla sanzione penale.

La previsione di una categoria autonoma di scusanti si ricollega ad una elaborazione scientifica sufficientemente consolidata, offrendo un coerente inquadramento dogmatico per alcune ipotesi legislativamente previste – come lo stato di necessità cogente e la esecuzione dell’ordine illegittimo insindacabile – che trovano un plausibile fondamento nel principio di inesigibilità, piuttosto che nei modelli esplicativi (riconducibili ai princìpi dell’interesse prevalente e dell’interesse mancante) posti alla base delle vere e proprie scriminanti.

Mentre le cause di giustificazione escludono l’antigiuridicità intesa come contrasto tra il fatto e l’intero ordinamento giuridico, determinano la non applicabilità di sanzioni e si estendono a tutti i concorrenti, la categoria delle cause soggettive di esclusione della responsabilità fa venir meno esclusivamente la rimproverabilità dell’agente (sottoposto alla pressione di circostanze psicologicamente coartanti che rendono inesigibile un comportamento diverso), lascia integra l’illiceità oggettiva del fatto e l’applicabilità di sanzioni civili ed amministrative e riguarda solo la persona il cui processo motivazionale è stato condizionato (e non è quindi estensibile a eventuali altri concorrenti).

L’introduzione nel tessuto codicistico della  categoria autonoma delle scusanti permette di delineare una più rigorosa sistemazione dogmatica delle diverse fattispecie di esclusione della responsabilità penale, offre una ragionevole soluzione a vari problemi, non solo di qualificazione, ma anche di individuazione del regime giuridico applicabile, affiorati in dottrina e in giurisprudenza, consentendo, ad esempio, di superare l’attuale costruzione legale unitaria dello stato di necessità e di fornire confini più precisi al "soccorso di necessità". Permette altresì di non incidere negativamente su princìpi generali che conducono logicamente ad attribuire rilevanza anche ad ulteriori ipotesi non prese in considerazione dal codice Rocco (ad esempio l’ esecuzione dell’ordine privato, l’eccesso di legittima difesa per grave turbamento psichico in situazioni di rilevante pericolo).

Entrando nel merito delle direttive, l’art. 15 indica le singole cause di giustificazione. Per quanto riguarda l’esercizio del diritto, si è ritenuto di confermare la previsione generale contenuta nel vigente codice penale. II relazione all’adempimento del dovere, si è inteso riaffermare il principio secondo cui il dovere con efficacia scriminante può trovare fonte  in una norma giuridica, ovvero in un ordine legittimo della pubblica autorità.

Viene inoltre espressamente ricondotta nell’ambito delle scusanti, e sottoposta ad una specifica regolamentazione di portata sensibilmente restrittiva, la fattispecie dell’esecuzione dell’ordine illegittimo vincolante; viene qualificata come ipotesi speciale di adempimento del dovere - anche al fine di sottolineare la prevalenza del potere di coercizione statuale nelle situazioni di conflitto tra cittadini e autorità – la fattispecie dell’uso legittimo delle armi che era stata configurata come autonoma causa di giustificazione. Si è ritenuto che l’attuale impostazione meritasse di essere sottoposta ad una profonda revisione, per allineare la disciplina della materia ai princìpi che caratterizzano l’ordinamento democratico. In tale ottica, si è ritenuta ingiustificata la configurazione di una autonoma scriminante dell’uso legittimo delle armi (che, peraltro, non è riscontrabile in altre legislazioni europee) e si è inserita la relativa regolamentazione nel contesto di quella, più generale, riguardante l’adempimento del dovere, enucleando – in conformità del resto con l’interpretazione giurisprudenziale maggioritaria - due requisiti che condizionano la legittimità dell’impiego dei mezzi di coazione: la necessità del ricorso ai mezzi coercitivi e il  rispetto della proporzione tra beni in conflitto nella situazione concreta (art. 15, lettera b). Si è in tal modo delineata una disciplina conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ha evidenziato che l’uso delle armi, per non determinare una violazione dell’art. 2 della Convenzione di Roma, deve risultare assolutamente necessario, deve quindi riferirsi a situazioni in cui l’impiego di ogni strumento alternativo non produrrebbe effetti utili, e, comunque, deve essere strettamente proporzionato agli scopi da raggiungere.

La lettera c) dell’art. 15 indica l’ambito di applicazione del consenso dell’avente diritto, che resta circoscritto al consenso in relazione a interessi disponibili, e che, con l’esplicitazione del suo essenziale requisito di validità, consiste nella capacità del consenziente “di comprenderne il significato e di valutarne l’effetto” (c.d. “capacità naturale”: da accertare, quindi, caso per caso): regole peraltro implicite nella vigente normativa. L’ipotesi dell’affidamento nel consenso altrui, sottesa alla figura del “consenso presunto” (che ha formato oggetto di divergenti valutazioni da parte della dottrina e della giurisprudenza), è stata specificamente regolamentata nell’ambito delle scusanti.

In relazione alla “legittima difesa”, nel ridisegnare la disciplina di questa causa di giustificazione, si è attribuita una centrale rilevanza all’accertamento del rapporto di proporzione tra difesa ed offesa, specificando i parametri del relativo giudizio che – alla luce della più approfondita elaborazione giurisprudenziale – vengono riferiti ai beni in conflitto, ai mezzi a disposizione della vittima e alle modalità concrete dell’aggressione. Inoltre, in linea con l’impostazione seguita dalle precedenti Commissioni ministeriali, si è esclusa l’applicazione della scriminante con riferimento al fatto preordinato a scopo offensivo, colmando così una lacuna presente nella norma vigente, rispetto alla quale la giurisprudenza ha operato una interpretazione correttiva.

La constatazione della natura composita dell’attuale figura dello stato di necessità, nella quale convivono una ratio di bilanciamento di interessi (ricollegabile alla categoria delle scriminanti) ed una ratio di inesigibilità psicologica (tipica della categoria delle scusanti), ha suggerito di superare la costruzione unitaria di tale fattispecie, e di fornire confini più ragionevoli al "soccorso di necessità", finora riconducibile ad una previsione troppo generalizzata. Ci si è quindi orientati verso una regolamentazione analoga al modello delineato dai §§ 34 e 35 del Codice Penale tedesco (recepito largamente dal Codice Penale portoghese e da quello polacco) che opta per una chiara distinzione tra due figure, differenziate nella struttura e negli effetti: quella dello “stato di necessità giustificante” e quella dello “stato di necessità scusante”.

In linea con questa impostazione, si è inquadrato nell’ambito delle cause di giustificazione lo stato di necessità, limitatamente all’ipotesi in cui, oltre agli altri tradizionali requisiti, sia ravvisabile una superiorità dell’interesse personale, proprio od altrui, che l’agente intende salvare, rispetto a quello sacrificato; tale superiorità deve essere particolarmente rilevante nei casi in cui l'interesse da salvare riguardi il titolare di uno specifico dovere giuridico di esporsi al pericolo (come, ad esempio, nel caso dei vigili del fuoco, ecc.).

La "necessità cogente" - radicata in una situazione di sostanziale equivalenza tra l'interesse da salvare e quello offeso - è stata, invece, inserita nell’ambito delle scusanti. Nello “stato di necessità giustificante”, la prevalenza dell’interesse salvaguardato rispetto a quello leso non permette di restringere la cerchia dei destinatari del “soccorso di necessità” ed implica la generale liceità del fatto, precludendo l’applicazione di sanzioni non solo penali, ma anche amministrative o civili, eccetto quella dell’equo indennizzo prevista dall’art. 2045 c.c., che rappresenta il modello tipico di sanzione per fatto lecito.

Non si è ritenuto, allo stato, di disciplinare la scriminante dell’attività medico-chirurgica. Tale scelta è stata determinata, dopo ampia discussione, sia da orientamenti profondamente diversi emersi nel corso della discussione (es. riconducibilità al consenso dell’avente diritto o esclusione della tipicità del fatto in sé?), sia dalle implicazioni con temi di bioetica, sui quali già è iniziata la discussione in sede parlamentare, ove da tempo sono state depositati numeroise proposte di legge. Si è ritenuto quindi di attendere l’orientamento del Parlamento e di rinviare alla parte speciale la disciplina del fondamento e dei limiti della liceità dell’attività medico-chirurgica. 

         L’art. 16 indica le singole cause soggettive di esclusione della responsabilità. Per quanto concerne l’esecuzione di un ordine illegittimo vincolante (comma 1, lettera a), si è prevista, tra le scusanti, la causa di non punibilità costituita dalla esecuzione dell’ordine illegittimo non sindacabile della Pubblica Autorità: in tali casi non viene esclusa l’illiceità del fatto, ma vengono meno i presupposti di un normale processo motivazionale e la libertà di autodeterminazione dell’agente. In linea con l’ormai consolidato orientamento interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, si è esplicitato che la punibilità dell’esecutore non può mai venire meno in presenza di un ordine manifestamente criminoso. Si tratta di un limite riconosciuto non solo dalla normativa interna (v. l’art. 4 L. n. 382 del 1978 e l’art. 25 D.P.R. n. 545 del 1986, entrambi in tema di disciplina militare), ma anche dall’art. 33 dello Statuto della Corte Penale Internazionale e da numerosi codici di altri Paesi. A tale ipotesi, rapportata ad un parametro valutativo medio, è stata assimilata quella dell’ordine la cui criminosità sia comunque nota all’esecutore. Si è ravvisata, inoltre, l’opportunità di disciplinare la specifica modalità di compartecipazione criminosa rappresentata dalla emanazione dell’ordine, esplicitando che la insindacabilità dello stesso può valere ad escludere la responsabilità di chi lo esegue, ma non quella del soggetto che lo impartisce.

Dalla fattispecie dello “stato di necessità giustificante” è stata distinta quella dello “stato di necessità scusante” che ha recepito il modello delineato dai §§ 34 e 35 del codice penale tedesco. L’operatività della causa soggettiva di esclusione della responsabilità attiene alle ipotesi in cui l'interesse da salvare presenti una sostanziale equivalenza rispetto a quello offeso. La scusante, dovendo correlarsi alla inesigibilità psicologica di una condotta diversa, presuppone una rigorosa selezione e dei requisiti del pericolo, dei beni tutelati e dei beneficiari del soccorso di necessità. La sfera di applicazione della “necessità cogente”, infatti, resta circoscritta a specifici beni giuridici di particolare rilevanza (vita, integrità fisica, libertà personale o sessuale), di cui siano titolari lo stesso agente, ovvero le persone a lui legate da speciali vincoli affettivi. Si richiede, inoltre, che il pericolo non sia altrimenti evitabile né volontariamente causato, e – in rapporto ai beni giuridici diversi dalla vita - abbia ad oggetto la verificazione di un danno grave. Il soggetto tenuto ad esporsi al pericolo in virtù di un particolare dovere giuridico, non potrà mai fruire della causa soggettiva, qualora agisca per salvare sé medesimo. La scusante, in ogni caso, non fa venir meno l’illiceità extrapenale del fatto.

Si è prevista – in coerenza con le disposizioni contenute nelle codificazioni di numerosi Stati europei (segnatamente, il  § 33 del codice penale tedesco, l’art. 11 di quello sloveno, l’art. 33 di quello portoghese, il § 13 di quello danese e l’art. 25 di quello polacco) – una scusante riferita alle ipotesi in cui l’eccesso dai limiti della legittima difesa sia dipeso da condizioni psicologiche tali da escludere la colpevolezza per un fatto che in concreto non è rimproverabile all’agente. Si tratta, precisamente, dello stato di grave turbamento psichico, timore o panico, insorto in situazioni oggettive di pericolo per la vita, l’integrità psico-fisica, la libertà personale o la libertà sessuale dell’agente e degli altri soggetti aggrediti, sorpresi in luoghi isolati o chiusi o comunque di minorata difesa (art. 16, lettera c). Tale previsione recupera le esigenze sostanziali sottese alla disciplina dettata dai commi secondo e terzo dell’art. 52 c.p., inquadrandole, però, in una categoria dogmaticamente coerente con l’intero sistema codicistico e con il quadro costituzionale.

Tra le cause scusanti è stata inserita anche la fattispecie dell’affidamento nel consenso altrui, individuandone i requisiti nella verosimile utilità obiettiva del fatto commesso per il titolare dell’interesse, e nella mancanza di un suo dissenso (tale regolamentazione è conforme a quella prevista dal progetto Pagliaro e dal Progetto Nordio, i quali tuttavia avevano optato per la qualificazione dell’ipotesi in questione come causa di giustificazione). Si tratta di una figura ricollegabile alla categoria del “consenso presunto”, che ha formato oggetto di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale, in cui è stata prospettata l’incidenza di tale situazione sul dolo, in alternativa all’estensione analogica dell'operatività dell'art. 50 c.p.

Si è infine ritenuto che, nell’ambito della categoria delle cause soggettive di esclusione della responsabilità, possa assumere rilevanza scusante, nei confronti di chi lo esegue, anche l’ordine impartito nell’ambito di un rapporto di lavoro di diritto privato. Allo scopo di contemperare la considerazione della condizione psicologica dell’agente con l’esigenza di non sottrarre in via generale i poteri privati al controllo giurisdizionale, si è considerato indispensabile specificare i presupposti cui deve restare subordinata l’efficacia scusante di tale tipo di ordine e cioè la tenuità del fatto e delle sue conseguenze (lettera e).

La Commissione si è anche soffermata sulla questione delle operazioni sotto copertura: istituto che, dal 1990 ad oggi, è andato sempre più ampliandosi, con regolamentazione frammentaria e spesso non coerente. Alcuni Commissari si sono mostrati favorevoli – di fronte all’ineluttabilità per il legislatore di prevedere, quale indispensabile strumento di contrasto di determinate forme di criminalità, le cd. “operazioni sotto copertura” (e l’accettazione ormai generalizzata di tale “male necessario”) – all’inserimento nella parte generale del codice di un principio generale di liceità di tali operazioni (e quindi di questa forma di contrasto alla criminalità ormai internazionalmente riconosciuta) anche per potere, contemporaneamente, prefigurare un modello con limiti e controlli ai quali le leggi speciali debbano conformarsi. Solo così, infatti, secondo alcuni componenti della Commissione, sarebbe stato possibile porre fine alle irragionevoli distinzioni oggi presenti nelle figure speciali previste per le diverse materie, che non trovano giustificazioni né utilità in relazione alla concreta praticabilità delle operazioni sotto copertura e alla tutela degli interessi coinvolti. Sono state così proposte formule più precise, e  più tassative, in relazione alla figura del privato collaboratore e alla tipicità delle condotte discriminate e sono stati altresì indicati precisi obblighi di documentazione rispetto alle autorizzazioni previste dalla legge.

La maggioranza della Commissione - pur prendendo atto della importanza e della delicatezza del problema e della necessità di regolamentare le cd. “operazioni di copertura” con una normativa di carattere generale capace di porre limiti e “paletti” al fine di evitare il proliferare di “scriminanti”, talvolta ingiustificate o non proporzionate alla tutela dei diritti e delle garanzie individuali e collettive - ha ritenuto non coerente con le decisioni prese in tema di “cause di giustificazione”, “codificare” nella parte generale tale materia. Invero, una legittimazione “codicistica” di tali attività - che dovrebbe prevedere norme di carattere eccezionale e limitate nel tempo - avrebbe finito per sortire un effetto opposto a quello auspicato dai proponenti. Tale orientamento non esclude, evidentemente, l’eventuale inserimento di norme specifiche nella parte speciale, anche sulla base del dibattito che, sul tema, si sta svolgendo in ambito parlamentare.  

 

XV. Reato tentato

 

Le problematiche che si sono poste nel corso del dibattito sono state sostanzialmente quella della definizione del tentativo, del suo ambito di applicazione, della compatibilità tra dolo eventuale e tentativo e  del trattamento sanzionatorio. Così come era avvenuto nell’ambito delle precedenti Commissioni, e nel dibattito successivo alla presentazione dei relativi progetti, sono emersi due orientamenti: uno teso a mantenere la vigente formulazione, ancorando quindi il tentativo alla idoneità e alla non equivocità degli atti, seppur accentuandone i profili di materialità; l’altro fondato sul momento dell’esecuzione.

         Nel primo senso si erano espresse la Commissione Pagliaro (art.  19), che ha definito il tentativo come il fatto di “chi, con l’intenzione o la certezza di cagionare l’evento, compie atti idonei oggettivamente diretti in modo non equivoco a realizzare un delitto” e la Commissione Nordio (art. 41), che lo ha definito come il ‘compimento di atti diretti in modo oggettivamente univoco e idonei alla realizzazione del reato’ Nel secondo senso si è indirizzato il progetto Grosso ( “Chi intraprende l’esecuzione di un fatto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”).

Al fine di stabilire la soluzione preferibile, nell’ambito di una concezione oggettiva del tentativo legata alla qualità e al “valore” degli atti posti in essere (e non alla volontà criminosa dell’agente, come postulato dalle teorie soggettive), il dibattito si è sviluppato soprattutto sulle seguenti considerazioni:

1)     qualunque enunciato voglia accogliersi, il problema del tentativo gravita inevitabilmente sulla distinzione tra atti punibili, in quanto espressivi di una volizione materializzatasi con determinate forme o modalità, e atti non punibili, in quanto privi di tale consistenza: il che vale quanto affidarsi alla distinzione fra atti esecutivi e preparatori, la cui carica significativa allude ai medesimi concetti. Problematica che tende ad assumere, quindi, una portata nominalistica: il che rende illusorio pensare – dopo oltre due secoli di sforzi della dottrina penalistica  – di potere rinvenire la chiave di volta per una soluzione definitiva.

2)     L’espressione ‘atti idonei e (oggettivamente) univoci’ è ormai entrata nel nostro lessico penalistico come sinonimo del tentativo punibile, ma non per questo è accreditabile di contenuti maggiormente garantistici rispetto alla formula incentrata sull’inizio dell’esecuzione. Ove poi voglia ritenersi che l’interpretazione dottrinale e giurisprudenziale abbia proceduto a realizzare una eterogenesi dei fini, ribaltando il significato di quella espressione in modo da mantenerla nel solco di una concezione oggettiva, ciò può valere solo ad accentuare la valenza nominalistica del problema, ma non certo a riabilitare il vigente art. 56 c.p.

3)     A livello di diritto comparato è indubbiamente prevalente la formula impostata sul principio di esecuzione: essa, infatti, si rinviene, da un lato, nei codici francese (art. 121-5), spagnolo (art. 16) e svizzero (art. 21) e, dall’altro lato, nei codici tedesco (§ 22), austriaco (§ 15) e portoghese (art. 22). Posto che non sussistono rilevanti differenze fra ordinamenti che legano il tentativo all’“inizio dell’esecuzione” e ordinamenti legati al fatto di “accingersi immediatamente” all’esecuzione della fattispecie, in una prospettiva di armonizzazione comunitaria deve ritenersi che ogni definizione del tentativo sia destinata a presentare una struttura incentrata sul principio di esecuzione, come tale nettamente divergente dal nostro art. 56 c.p.. Non si può del resto negare che i concetti di univocità e idoneità degli atti mantengano una notevole vaghezza dei contorni. Quanto all’univocità, come dimostrato anche dall’evoluzione del pensiero di Carrara e dalle sue oscillazioni tra una percezione di tale concetto come criterio di essenza ovvero solo probatorio, essa soffre di una inevitabile proiezione sull’accadimento concreto e di una altrettanto inevitabile sua valutazione alla luce delle circostanze contingenti (a meno che, ovviamente, non si ritenga univoco solo l’atto che immediatamente precede – o, addirittura, nel quale consiste – la consumazione del reato); onde la sua configurazione oggettiva vale solo ad escludere rilievo alla confessione dell’agente, ma non può giungere fino a caratterizzare una qualità oggettiva e immutabile della condotta nel suo grado di prossimità rispetto all’evento (salvo che, con uno slittamento semantico, la si renda equivalente alla natura “esecutiva” della condotta).

4)     Anche il concetto di idoneità degli atti rimane ben distinto dalla idoneità dell’azione nel suo complesso e attiene ad una adeguatezza, nel senso di potenzialità causale, che può caratterizzare anche atti rientranti nella fase preparatoria del reato.

 

Tali considerazioni hanno portato alla formulazione di una direttiva di delega per cui  è punito, con la riduzione di pena da un terzo a due terzi, la condotta di chi, intenzionalmente e mediante atti idonei, intraprenda l’esecuzione di un reato, o si accinga ad intraprenderla con atti che immediatamente la precedono, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.

Le lettere b) e c) dell’art. 17 prevedono l’esclusione della punibilità del tentativo nei casi di inesistenza dell’oggetto o allorché l’agente, volontariamente, desista dall’azione, impedisca l’evento o si adoperi, con atti idonei, per impedire l’evento, anche se esso non si verifichi per una diversa causa. In tali casi permane la punibilità per gli atti compiuti se, di per sé, costituiscono reato.

Per quanto concerne il tentativo impossibile, si è discusso sull’opportunità o la necessità di una siffatta previsione, e si è ritenuto non necessaria una specifica indicazione nella direttiva di delega, anche in considerazione del fatto che è stata approvato una norma generale sulla non punibilità dei fatti inoffensivi

 

 

 

XVI. Circostanze del reato  

 

La dottrina è pressoché unanime nel ritenere che il codice vigente affida al giudice un potere discrezionale eccessivo. Ciò rappresenta il frutto della rinuncia ad una penetrante revisione del profilo sanzionatorio, che ha portato all’approvazione di alcune riforme tese a fornire al giudice strumenti di attenuazione delle pene edittali previste dal codice, proprio in quanto considerate eccessive (reintroduzione delle attenuanti generiche, allargamento dei confini dell’art. 69 c.p., facoltatività della recidiva, aumento dei limiti entro i quali è concedibile la sospensione condizionale della pena).

            L’aumento dei poteri discrezionali del giudice ha costituito, se si considerano i livelli di pena previsti dal nostro ordinamento penale, una risposta alla “non scelta legislativa” sulla gerarchia dei valori penalmente tutelabili, sulle sanzioni e sulla loro misura.

La Commissione ha ritenuto necessario porsi una serie di obiettivi: orientare il giudice in base alle funzioni della pena affermate dalla Carta costituzionale, assoggettare le scelte ad un effettivo controllo di legittimità, assicurare la certezza del diritto nella commisurazione della pena. Ciò ha portato ad interrogarsi sulla idoneità degli attuali criteri fattuali (art 133 c.p.) e sulla necessità di fare ricorso alla indicazione codicistica dei c.d. criteri finalistici, come già previsto da alcuni codici stranieri (es. Germania, Brasile, Portogallo).

Tenuto conto delle indicazioni provenienti dai lavori delle precedenti Commissioni e da quelle provenienti dalla dottrina, si è prevista:  

a) una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato e la contestuale indicazione espressa della circostanze medesime;

b) l’adozione di soluzioni che favoriscano la restaurazione di un regime applicativo conforme ai postulati del principio di colpevolezza e di determinatezza della fattispecie circostanziale;  

c) la revisione dell’entità degli aumenti e delle diminuzioni in presenza di circostanze comuni;

d) la rivisitazione del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee;

e) un ridimensionamento degli effetti della recidiva, con un aumento di pena obbligatorio per chi, dopo esser stato condannato per un reato doloso, commetta un altro reato doloso della stessa indole nei cinque anni successivi: il non commettere un nuovo reato della stessa indole per cinque anni può, infatti, essere considerato elemento tale da far presumere il ravvedimento del reo e l’adeguatezza della condanna già subita.

Le circostanze sono fondate sulla valorizzazione di aspetti di maggiore o minore disvalore del fatto di reato, in una prospettiva finalistica orientata ad esigenze di retribuzione e/o di prevenzione generale. In questo senso, si distinguono dagli indici di commisurazione della pena di cui all’art 133 c.p., diretti più che altro “a ricostruire la personalità dell’agente, emergente dal fatto e dalle condotta di vita”, e come tali funzionali ad assecondare maggiormente gli obiettivi di prevenzione speciale e rieducazione che caratterizzano la stessa funzione della pena nella fase della concreta irrogazione giudiziale.

Dopo aver esaminato con particolare attenzione la proposta di eliminazione delle circostanze, si è mantenuta la loro efficacia ultraedittale soprattutto per la loro capacità di:

1)                              esprimere una  maggiore o minore intensità dell’offesa rispetto al bene protetto dalla norma incriminatrice;

2)                              tutelare beni diversi da quelli protetti dalla norma incriminatrice in caso di condotte plurioffensive (es. art.61 n.2; 61 n.9; 625 n.2, 576 n.5 c.p.);

3)                              precisare atteggiamenti psichici o caratteristiche tipiche della personalità dell’offensore che si riflettono sul grado di colpevolezza e sul disvalore complessivo della condotta.

            Si è ritenuto che – mantenendo l’obbligatorietà della loro applicazione e collocandole nell’alveo della commisurazione legale della pena - le circostanze possano svolgere ancora oggi una importante funzione retributiva e generalpreventiva. Tuttavia, anche in considerazione dell’orientamento di parte della dottrina favorevole all’eliminazione delle circostanze – e come punto di equilibrio tra le diverse posizioni (basate su argomentazioni pregevoli) – si è deciso di  ridurne il catalogo e di limitare gli  spazi di discrezionalità derivanti sia dall’applicazione delle circostanze che dall’entità degli aumenti o delle diminuzioni di pena.

La Commissione ha deciso, da un lato, di eliminare fattispecie circostanziali di dubbio significato (es. l’avere agito per suggestione della folla in tumulto) o di indistinto e indiscriminato valore (aggravante teleologica) e, dall’altro di prevedere nuove circostanze aggravanti comuni (art. 18, comma 2), tra cui “l’aver commesso il fatto per finalità di discriminazione razziale, religiosa, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche, di genere e di orientamento sessuale”; nonché “l’aver commesso il fatto per finalità terroristiche, ovvero per agevolare associazioni di stampo mafioso o associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale”. 

Le circostanze incidono sulla commisurazione legale della pena e non sulla commisurazione giudiziale: si sono eliminate quindi le circostanze indefinite e si subordinata la previsione di tutte le future previsioni circostanziali al vincolo della determinatezza: ne è conseguita la preclusione di aggravanti direttamente e scopertamente in contrasto con l’art 25 comma 2 Cost. (si pensi alle aggravanti speciali espresse con le formule “nei casi più gravi”, “di particolare gravità”, come ad esempio quelle previste negli artt. 1 legge n. 400 del 1985 che incrimina l’abusiva riproduzione di opere cinematografiche o per i reati ministeriali data dalla “eccezionale gravità” del fatto, prevista dall’art 4  L. Cost. 16 gennaio 1989 n.1). Sono situazioni in contrasto con l’inviolabilità del diritto di difesa, nelle quali sono già stati notoriamente ravvisati i margini di una potenziale illegittimità costituzionale dei casi indefiniti di aggravamento della pena.

                      Per quanto concerne le attenuanti generiche, partendo dalla considerazione che la loro funzione si è sempre risolta nell’estemporaneo surrogato di un’adeguata riforma dei limiti edittali e del sistema sanzionatorio, la Commissione ha optato, anche sulla base delle considerazioni sopra accennate, per la loro abolizione: la loro indeterminatezza, se non collide con i princìpi costituzionali, rappresenta tuttavia un veicolo di discrezionalità (se non di arbitrio) giudiziale, ben poco rispettoso del canone di certezza che pur deve informare la predeterminazione legislativa della cornice edittale ed orientare (sia pure con i debiti temperamenti) la commisurazione della pena da parte del giudice.

            Si è peraltro cercata, non senza perplessità da parte di non pochi componenti della Commissione, una soluzione meno drastica, quale quella di prevedere una specifica norma (correttivo di equità) che permetta al giudice di applicare una diminuzione fino ad un terzo quando la pena in concreto irrogabile risulti eccessiva rispetto all’effettivo disvalore del fatto (art. 36). Il correttivo di equità, a differenza delle circostanze attenuanti generiche, è, nelle intenzioni della Commissione, uno strumento da utilizzare in casi eccezionali e particolari quali quelli in cui le conseguenze del reato abbiano già determinato una “pena naturale” ritenuta più che sufficiente in relazione al disvalore del fatto: l’esempio di scuola è quello relativo a un omicidio colposo per violazione del codice della strada in cui la vittima, o le vittime, sono persone legate da forti legami affettivi al responsabile del reato. E’ questo il motivo per cui, nell’ultima versione di tale direttiva, si è voluto specificare che la diminuzione di pena possa essere applicata, solo quando la pena inizialmente prevista sia “palesemente eccessiva” rispetto all’effettivo disvalore del fatto. E si è voluto specificare, proprio per evitare una interpretazione estensiva, che, in  caso di applicazione del “correttivo di equità” la decisione debba essere “analiticamente motivata” proprio per evitare qualsiasi indiscriminata applicazione di una norma di favore, garantendo, anche attraverso il controllo di legittimità, che la pena sia effettivamente adeguata al caso concreto.  E’ stata anche valutata, nell’ambito della Commissione, la proposta di prevedere, in casi simili, una specifica causa di non punibilità, in quanto, in casi del tutto particolari, già può essere sufficiente la “pena” e la “sofferenza” derivanti dalle conseguenze del reato: un’eventuale altra sanzione non avrebbe alcuna giustificazione proprio in considerazione della finalità che la pena deve avere ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. La Commissione, a  larga maggioranza, non ha accolto tale proposta e si è orientata per la norma prevista dall’art. 36, la cui finalità – è opportuno ribadirlo onde evitare equivoci – è ben diversa da quella dell’attuale art. 62 bis c.p. 

 

Quanto agli effetti delle circostanze ad effetto ordinario, si prevede - anche in funzione limitativa dello spettro sanzionatorio su cui si muove il potere discrezionale del giudice nella commisurazione della pena in concreto - un criterio più restrittivo dell'attuale: l’aumento o la diminuzione sarà da un sesto a un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza di circostanze. In caso di concorso di due o più circostanze aggravanti, ovvero due o più circostanze attenuanti, ad effetto ordinario, gli aumenti o le diminuzioni di pena possono essere complessivamente fino alla metà dei limiti previsti dalla legge per il reato base. Naturalmente, anche questa soluzione si inserisce in un sistema sanzionatorio rinnovato e caratterizzato da cornici edittali più contenute. 

Per quanto concerne il giudizio di bilanciamento, non si poteva non prendere atto del fatto l’attuale sistema porta, in concreto, il giudice ad escludere dal procedimento di commisurazione della pena significative parti del fatto di reato. I progetti Nordio e Pagliaro proponevano l’abolizione del giudizio di bilanciamento, imponendo la valutazione integrale di tutte le circostanze. Secondo il parere di una Commissione istituita presso la Procura Generale della Corte di Cassazione, la soluzione si sarebbe rilevata impraticabile frammentando eccessivamente il procedimento di commisurazione della pena.

Dopo una approfondita discussione, nel corso della quale sono state analizzate varie proposte, la Commissione ha ritenuto di adottare la soluzione già prevista nei progetti sopra menzionati. Per evitare sequenze arbitrarie nei conteggi, si è deciso di tener conto di quanto previsto dal punto 17 dell’art 28 dello schema di delega della commissione Nordio: in caso di concorso eterogeneo di circostanze il giudice deve tener conto di tutte le circostanze,  fermo restando che la singola circostanza debba essere calcolata sempre sulla pena-base e non sulla pena risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente; che i singoli aumenti e le singole diminuzioni si debbono sommare; che dal computo debba risultare complessivamente la quantità residua di aumento o di diminuzione; che, per effetto delle circostanze e delle altre possibili attenuazioni o aggravamenti di pena previsti dal codice, la pena edittale non possa essere aumentata oltre la metà del massimo o diminuita oltre la metà del minimo.

 

         Per quanto concerne la recidiva, vari ordinamenti hanno collocato in modo diverso tale istituto a seconda che allo stesso fosse dato una finalità prevalentemente “retributiva”, quale fattore legato alla colpevolezza del soggetto (grado di maggiore capacità a delinquere), o una finalità di prevenzione speciale, quale connotato di una maggiore pericolosità del soggetto riscontrabile nella ostinazione a delinquere. La Suprema Corte, cercando di colmare tale vuoto, aveva ridefinito la recidiva in termini bidimensionali, considerandola come espressione di attitudine a commettere nuovi reati e di insensibilità etica all’obbligo di non violare la legge, dimostrata dal reo dopo la condanna.

Tenuto conto delle incertezze applicative e delle contraddizioni dell’attuale sistema, è sembrato coerente con i principi costituzionali, e con le ragioni a fondamento dell’istituto, l’adozione di una soluzione classico-garantistica. Si è così ritenuto di prevedere una recidiva:

a)     obbligatoria (per garantire a tutti i recidivi eguale trattamento e per rispettare il diritto di difesa attraverso precise garanzie processuali);

b)    specifica (in base alla antica convinzione che recidivo sia solo chi ricade in un reato della stessa natura, in quanto, solo in presenza di un nuovo reato omogeneo, si può ritenere che la pena sofferta si è rivelata insufficiente)

c)     temporanea (l’astensione dal delitto per un certo numero di anni depone a favore della sufficienza della pena).

La Commissione ha ritenuto di non estendere la recidiva ai reati colposi, attualmente esclusa in virtù della legge n. 251 del 2005. Quanto all’inquadramento sistematico, da cui derivano conseguenze anche rilevanti, la recidiva va considerata una circostanza comune in senso tecnico.

 

 

 

XVII. Concorso di reati – concorso formale – reato continuato 

 

         Varie erano le prospettive, quanto meno in via astratta, per disciplinare il concorso di reati: utilizzare il criterio del  cumulo materiale, quello del cumulo giuridico, per il quale alla pluralità di reati si applica la pena del reato più grave  congruamente aumentata, ovvero quello del cd. “assorbimento” per il quale si applica esclusivamente la pena per il reato più grave.

La Commissione ha ritenute valide le ragioni di ordine sostanziale e comparativo per abbandonare il sistema del cumulo materiale e per conservare le figure del reato continuato e del concorso formale come ipotesi privilegiate rispetto alla disciplina generale  del cumulo giuridico.  L’unitarietà del fatto punibile, riscontrabile nel “concorso formale” e nel “reato continuato” ha portato la Commissione a rienere equa, in tali casi, la pena prevista per il reato in concreto più grave, aumentata fino al doppio (art.19, comma 1, lettera b).

Al fine di ricondurre a ragionevolezza la tendenza alla dilatazione della unificazione dei reati, si è ritenuto di ancorare il riferimento alla “risoluzione criminosa unitaria” anche, ma non solo, all’indole, alle modalità esecutive e all’arco temporale dell’esecuzione dei reati (art. 20 lettera b).

 

 

XVIII. Concorso di persone nel reato 

 

La priorità che si è posta la Commissione nel disciplinare il concorso di persone nel reato è stata quella di assicurare la definizione del contributo punibile, nel rispetto dei princìpi di determinatezza, tassatività e chiarezza della legge penale, anche al fine di ridurre il tasso di genericità dell’attuale formulazione dell’art. 110 c.p.

Per evitare clausole generiche, non sufficientemente determinate, quale quella dell’attuale art. 110 c.p., si è scelto di individuare nella tipologia del contributo prestato alla realizzazione del fatto il criterio generale che conferisce rilevanza alla condotta concorsuale, specificando che concorre nel reato chi  partecipa alla sua deliberazione, preparazione o esecuzione, ovvero chi, determinando o istigando altro concorrente o prestando un aiuto obiettivamente diretto alla realizzazione medesima, apporta un contributo causale alla realizzazione del fatto (art.  20 lettera a).

La vigente disciplina del concorso di persone lascia configurare forme di responsabilità oggettiva, equiparando contributi radicalmente diversi dal punto di vista dell’elemento psicologico, come avviene nel caso previsto dall’art. 116 c.p. Per questa ragione si è ritenuto di fornire una risposta anche all’esigenza di adeguare il sistema ai princìpi di colpevolezza e proporzionalità dell’intervento punitivo. Ne è derivata una disposizione per cui ciascun concorrente deve rispondere del reato nei limiti e in proporzione al contributo materiale e psicologico offerto alla realizzazione del fatto.

Il problema della comunicabilità delle circostanze ai concorrenti è poi stato positivamente risolto facendo riferimento alla struttura delle circostanze, singolarmente considerate. Dal punto vista della valutazione delle cause di giustificazione e delle “esimenti” in senso ampio, sono note le incertezze interpretative concernenti l’attuale art. 119 c.p., alle quali era necessario dare una risposta chiara e soddisfacente. Il criterio di fondo adottato, che ripercorre quello seguito dai precedenti progetti, deve cogliersi nella struttura oggettiva o soggettiva delle singole situazioni considerate.

         In linea di principio dovrebbero reputarsi munite di una struttura oggettiva quelle fattispecie di non punibilità che maturano indipendentemente da particolari coefficienti psicologici, risultando perciò anche “oggettivamente” accertabili dal giudice; soggettive quelle che invece presentino tali coefficienti. In quest’ultimo caso, un effetto di “comunicazione” ai concorrenti non sembra adeguato, perché lascerebbe valorizzare, a favore di taluni tra i concorrenti, elementi squisitamente personali, appartenenti ad altri, ai quali soltanto si collega l’effetto esonerante previsto dalla legge.

In relazione ai casi di desistenza e recesso -  istituti che presuppongono impegnative opzioni di politica penale, concernenti gli strumenti che è utile mettere in campo per assicurare la tutela dei beni, prospettando al destinatario della norma i vantaggi di un ritorno alla legalità – non si è condivisa la soluzione prevista dal codice vigente, che distingue gli effetti della desistenza e del recesso, affidando all’interprete il compito di tracciare, in concreto, la linea di confine (scelta che ha assicurato flessibilità, comportando, tuttavia, carenze di precisione emerse soprattutto in tema di concorso di persone).

Si è quindi scelto di fissare una regola che chiarisca i presupposti e gli effetti della desistenza volontaria. Si è così precisato che non è punibile il concorrente che, volontariamente, neutralizzi gli effetti della propria condotta ovvero impedisca la consumazione, anche quando questa non si verifichi per altra causa (art.20, comma 1, lettera m). Per il concorrente che volontariamente ponga in essere atti idonei a impedire la consumazione del reato, è prevista una diminuzione di pena qualora il reato si verifichi. In questi ultimi casi, il concorrente sarà punito per gli atti che costituiscono un reato diverso da quello inizialmente previsto.

 

XIV. Imputabilità

 

         La Commissione è partita dalla constatazione della profonda crisi che ha vissuto il concetto di imputabilità, anche quale riflesso dei controversi rapporti tra giustizia penale e scienze psichiatriche. Ciò essenzialmente in quanto, al profilo normativo del concetto di imputabilità, si aggiunge quello empirico, che rientra nella competenza dello psichiatra e che attiene alla prevedibilità dei comportamenti futuri di chi ha commesso un reato in una situazione di compromessa capacità di intendere e/o di volere.

         Altro problema – che riguarda soprattutto i casi di ubriachezza e di assunzione di sostanze stupefacenti - è quello dell’utilizzo massiccio di fictiones iuris, che costituiscono una deroga espressa alla regola che esige, ai fini della punibilità, la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto.

Il codice Rocco, in un’ottica legata ad esigenze squisitamente preventive, ha dato vita per tali ipotesi ad un sistema di attribuzione della responsabilità penale sganciato dall’accertamento effettivo delle condizioni personali al momento della realizzazione del fatto (artt. 92 e segg. c. p.).  Tale disciplina è difficilmente armonizzabile con il principio di personalità della responsabilità penale e, soprattutto, con un diritto penale del fatto. Evidente è, infatti, lo iato tra fatto e colpevolezza, caratteristico dello schema dell’actio libera in causa, tra norma e realtà sottostante, che costringe il legislatore al ricorso a finzioni giuridiche, le quali a loro volta finiscono per collidere irrimediabilmente con il principio di colpevolezza, dando luogo ad ipotesi di responsabilità oggettiva (occulta o mascherata), che, in quanto tali, vanno rigorosamente bandite dall’ordinamento giuridico.

         Sulla base di tali considerazioni, la Commissione ha fatto le seguenti scelte di fondo (artt.21-22):

a)       abolizione del sistema del doppio binario, che prevede l’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza;

b)      abolizione delle finzioni di imputabilità, che costituiscono una deroga alla regola che esige, ai fini dell’imputabilità, la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto;

c)      recepimento, quanto al vizio di mente, dei princìpi fissati dalle Sezioni Unite penali (sent. 9163, Raso, 25.1.2005), con il conseguente abbandono di un rigido modello definitorio dell’infermità in favore di clausole aperte, più idonee ad attribuire (a determinate condizioni) rilevanza anche ai disturbi della personalità;

d) previsione, nei casi di incapacità di intendere e di volere, di misure di cura e/o di controllo, determinate nel massimo e da applicarsi in base alla necessità della cura;

e)       applicazione, nei casi di ridotta capacità di intendere e di volere, di una pena ridotta da un terzo alla metà finalizzata al superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità dell’agente.

        

         Nel corso della discussione è stato ampiamente condiviso il concetto per cui l’imputabilità è la capacità di colpevolezza e, quindi, è presupposto per la rimproverabilità di un determinato comportamento: capacità di comprendere il significato del proprio comportamento illecito non significa, però, coscienza dell’antigiuridicità del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice, ma più semplicemente comprensione del suo significato offensivo, nella sua dimensione fattuale concreta. Tale considerazione ha portato la Commissione a condividere la scelta del progetto Grosso (nell’ultima versione) che fa riferimento “alla capacità di comprendere il significato del fatto”

         Tutto ciò è, del resto, in piena sintonia anche con la funzione di prevenzione generale della pena: la minaccia della sanzione può, infatti, avere effetti deterrenti solo in quanto il soggetto è in grado di comprendere le conseguenze sanzionatorie della propria condotta. Dal punto di vista della prevenzione speciale, la finalità rieducativa della pena ha senso solo se rapportata alla possibilità della sua percezione e presuppone che l’autore del reato abbia manifestato ribellione, o almeno indifferenza, verso il bene giuridico tutelato e, dunque, che sia stato consapevole di commettere un fatto penalmente illecito.

La Commissione ha ritenuto di riformare l’istituto dell’imputabilità in conformità al principio di colpevolezza pur tenendo doverosamente conto delle esigenze di tutela della collettività e cercando, quindi, un punto di equilibrio tra colpevolezza e prevenzione.

         L’individuazione del concetto di infermità mentale rilevante per il diritto penale è stato un tema particolarmente dibattuto negli ultimi trenta anni. Le oscillazioni interpretative sono state determinate soprattutto dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, insorto quando quest’ultima ha sottoposto a revisione critica paradigmi in precedenza generalmente condivisi ed ha aperto al pluralismo interpretativo, con la conseguenza che, ad un indirizzo medico (a sua volta distinto tra un orientamento organicista ed uno nosografico), si è venuto a contrapporre quello giuridico, che ha allargato la nozione di infermità rispetto a quella di malattia psichiatrica.         

La giurisprudenza di merito e di legittimità, sino alla sentenza delle Sezioni Unite penali del 9163/05, aveva registrato continue oscillazioni interpretative. Con tale decisione, la Suprema Corte, dopo un condivisibile percorso logico argomentativo, ha ritenuto che, ai fini dell’imputabilità, sia necessario accertare, in concreto, se ed in quale misura “l’infermità” abbia effettivamente inciso sulla capacità di intendere e di volere, compromettendola del tutto o scemandola grandemente. Di conseguenza ha affermato che i disturbi della personalità possono acquistare rilevanza solo ove siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e volere: in altri termini, secondo la Corte, i disturbi della personalità, quand’anche non inquadrabili nelle figure tipiche della nosografia clinica iscrivibili al più ristretto novero delle “malattie” mentali, possono costituire anch’esse “infermità”, anche transeunte, rilevante ai fini degli artt. 88 e 89 c. p., ove determinino il risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e/o volitive. L’ulteriore requisito richiesto dalle Sezioni Unite, per dare rilevanza ai fini dell’imputabilità ai disturbi della personalità, è costituito dal nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il reato commesso, tale da far ritenere che il secondo sia stato causalmente determinato dal primo.

La Commissione, nel predisporre le direttive di delega sull’imputabilità, è partita proprio da tale indirizzo giurisprudenziale, condiviso da autorevole dottrina: il concetto di infermità, infatti, deve tener conto sia dei cambiamenti profondi nella struttura psicopatologica che dell’aumento di situazioni caratterizzate da una estrema difficoltà di classificazione, anche in quanto sono sempre più frequenti le cd. “forme spurie” (es. situazioni di deficit identitari, caratterizzate da estrema labilità dei confini egoici). In altri termini, anche i disturbi della personalità possono escludere o grandemente scemare la capacità di intendere e di volere dell’agente, qualora ricorrano determinate condizioni (di consistenza, intensità, rilevanza e gravità), che devono essere accertate in concreto. Ai fini del giudizio sulla capacità di intendere e di volere, ciò che rileva – quindi – è la circostanza che il disturbo abbia in concreto compromesso la capacità di percepire il significato del fatto commesso.

Per evitare di allargare eccessivamente il campo della non imputabilità, la Commissione ha previsto un correttivo, costituito dal legame che deve sussistere tra l’infermità ed il reato commesso, tale da far ritenere che il secondo sia espressione dalla prima:  affinché il vizio di mente possa avere rilevanza in ordine al profilo dell’imputabilità, il fatto deve trovare la sua origine e la sua causa nella infermità.

         In conclusione, occorre prendere atto che la capacità di intendere e volere al momento del fatto, ai fini del giudizio sull’imputabilità, va accertata in concreto da parte del perito, il quale dovrà dunque valutare quanto il disturbo mentale abbia inciso sulle capacità intellettive e volitive dell’agente ed accertare se il reato commesso sia espressione del disturbo stesso: il giudice dovrà tradurre tale giudizio empirico in quello giuridico di colpevolezza, cioè di rimproverabilità o meno del fatto al suo autore.

        

Per quanto concerne l’autore del reato riconosciuto semi-infermo il codice vigente prevede una pena ridotta e una misura di sicurezza nei casi in cui  permanga la pericolosità sociale dopo che la pena sia stata scontata. La Commissione ha ritenuto, in generale, di non prevedere nel codice misure di sicurezza e, per i semi-imputabili, di abbandonare l’attuale sistema che prevede l’applicazione congiunta di pena e misura di sicurezza: da un lato, l’applicazione della pena al semi-infermo pregiudica il suo recupero e la sua risocializzazione e, dall’altro, la sua sottoposizione alla misura di sicurezza dopo l’espiazione della pena risulta inutilmente afflittiva.

         Nel campo della semimputabilità, ancor di più che per i soggetti non imputabili, si contrappongono due esigenze, quelle generalpreventive di tutela della collettività e quelle terapeutiche e riabilitative. Premesso che la mera diminuzione di pena prevista dall’attuale disciplina codicistica per i casi di semi-imputabilità non è per nulla coerente con le esigenze terapeutiche del semi-infermo, due sono le soluzioni, tra loro alternative, che sono valutate dalla Commissione.

         a) La prima, che ruota sostanzialmente attorno a due princìpi cardine: 1) l’esaltazione del contenuto specialpreventivo dell’istituto della sospensione condizionale della pena. Il beneficio della sospensione della pena sarà infatti subordinato a un percorso terapeutico, disposto dal giudice sulla base di un accertamento medico-legale che abbia valutato positivamente le possibilità di riuscita e di efficacia dell’intervento più idoneo alla rieducazione ed al reinserimento sociale del reo; 2) la previsione (per le pene superiori a quelle che possono rientrare nella sospensione condizionale) della liberazione condizionale con effetto estintivo della parte residua di pena da scontare, con riferimento a condannati semi-imputabili - segnatamente soggetti affetti da disturbi della personalità - che già in carcere si siano sottoposti ad un programma terapeutico e che abbiano accettato di proseguire detto percorso di recupero anche all’esterno (come misura di sicurezza, che si andrebbe a sostituire, e non ad aggiungere come nell’attuale sistema del doppio binario, alla pena), sempre a patto che sussistano apprezzabili chances di riuscita del trattamento terapeutico.

         b) La seconda soluzione, prevede il ricorso ad una pena (diminuita da un terzo alla metà) caratterizzata in senso decisamente specialpreventivo, che si avvicina - quanto a contenuto ed a modalità di esecuzione - alle misure di sicurezza. I punti salienti sono i seguenti: determinazione della pena in funzione del superamento delle condizioni che hanno ridotto la capacità dell’agente, in particolare prevedendo un trattamento terapeutico o riabilitativo; possibile ricorso all’istituto della sospensione condizionale della pena, subordinata a un trattamento terapeutico o riabilitativo (sulla falsariga di quanto previsto dalla normativa sugli stupefacenti); previsione di accesso a misure alternative qualora non sussistano esigenze specialpreventive o generalpreventive tali da richiedere l’applicazione di una diversa misura; previsione della possibilità di estendere la disciplina dei programmi di trattamento alle ipotesi di condanna per reati commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale o in grave difetto di socializzazio, indipendentemente dall’incidenza sulla capacità di intendere e di volere (uno degli aspetti innovativi del progetto Grosso): in tali casi i programmi di trattamento sono rivolti al superamento della specifica condizione deficitaria.

         A larghissima maggioranza la Commissione ha optato per questa seconda soluzione, che pare meglio conciliare le esigenze di sicurezza della collettività e la necessità di trattamento del reo.

         Partendo dallo scioglimento del nesso ideologico fra condizione organica e disturbo psicopatologico, la Commissione è stata unanime nella decisione di eliminare la correlazione immediata - retaggio di vecchie teorie organicistiche - tra condizione di sordomutismo e vizio di mente, in quanto non vi è alcun motivo di considerare il sordomutismo, di per sé, come iscrivibile a condizioni di non imputabilità. Conseguentemente non si è prevista una norma quale quella di cui all’art. 96 del codice Rocco.

         Per i minori di età, la Commissione, a maggioranza - e dopo un approfondito confronto che ha tenuto conto sia della diversa maturità dei minori rispetto al passato sia dell’uso che, sempre di più, si fa dei minorenni per la commissione di reati - ha ritenuto di confermare la soglia minima dell’imputabilità ai quattordici anni e la necessita di un accertamento in concreto della capacità (rectius: della maturità) per i minori con età tra i quattordici ed i diciotto anni. Nel primo caso resta confermata una presunzione assoluta di incapacità; nel secondo, invece, è demandato al giudice il compito di accertare di volta in volta se il minore, nel momento in cui ha commesso il fatto,era sufficientemente maturo per poter comprendere il significato del fatto o, comunque, per agire secondo tale capacità di valutazione.

         Anche sulla base di tali considerazioni la Commissione ha ritenuto di differenziare la posizione del minore tra sedici ed i diciotto anni e quella del minore tra i quattrordici ed i sedici anni. Per il minore imputabile che ha compiuto i 16 anni si prevede una diminuzione di un terzo della pena; per il minore imputabile che non ha ancora compiuto i 16 anni la diminuzione potrà essere da un terzo alla metà, lasciando quindi al giudice la possibilità di valutare, in concreto, se sia opportuna o meno una diminuzione più ampia di quella prevista per chi ha superato i sedici anni.

 

Passando, quindi, alla proposta delle singole misure, si prevedono diversi tipi di “risposte sanzionatorie” per i non imputabili, evidentemente diversificate in considerazione della causa di non imputabilità: 1) quelle di tipo terapeutico per gli infermi di mente, 2) quelle finalizzate alla disintossicazione per i tossicodipendenti o per gli alcoolisti, 3) quelle rieducative per i minori (il sistema sanzionatorio per i minori è stato delegato ad altra specifica Commissione). Si è escluso con decisione il ricorso agli ospedali psichiatrici giudiziari, anche in quanto la legge 180/78 ha abolito i manicomi e gli ospedali psichiatrici giudiziari altro non sono che manicomi criminali.  

         Nel corso del dibattito è emersa, in maniera ancor più pressante, la necessità di riforma delle misure per gli alcoolisti ed i tossicodipendenti, riconosciuti non imputabili, atteso che allo stato l’intossicato cronico (da alcool o da sostanze stupefacenti) è sottoposto alle stesse misure di sicurezza previste per gli infermi di mente: non v’è chi non veda l’assoluta inadeguatezza dell’O.P.G. per i tossicodipendenti o gli alcoolisti. Occorre, dunque, prevedere nuovi presidi che salvaguardino le esigenze di cura del singolo, senza tuttavia pregiudicare quelle di tutela della collettività.

 

 

XX. Persona offesa dal reato

        

         La doverosa attenzione alle persone offese dal reato ha permeato tutti i lavori della Commissione. Nell’approfondimento di ogni istituto – e soprattutto allorché ci si è confrontati sul sistema sanzionatorio e sulla sospensione condizionale della pena – l’attenzione si è accentrata su soluzioni che tenessero conto, anche a livello risarcitorio e riparatorio, delle vittime del reato. Nel progetto si fa, in più punti, riferimento, diretto o indiretto, alla persona offesa o danneggiata dal reato. La Commissione ha tuttavia ritenuto fondamentale che uno schema di legge delega per un nuovo Codice Penale dovesse contenere anche una specifica direttiva relativa alla “persona offesa dal reato (art.23).

Si è quindi previsto che il codice debba disciplinare le modalità di tutela della persona offesa dal reato in conformità con quanto previsto dalla Decisione Quadro del 15 marzo 2001 (2001/220/GAI) e dalla Direttiva 2004/80/CE del Consiglio d’Unione Europea del 29 aprile 2004 relativa all’indennizzo delle vittime del reato. Anche se tali Direttive trattano, in gran parte, problematiche non di competenza del codice penale, la Commissione ha ritenuto opportuno fare un riferimento espresso alle indicazioni dell’Unione Europea in quanto condivide il richiamo al dovere dello Stato di garantire il diritto delle vittime ad ottenere “un indennizzo equo e adeguato per le lesioni subìte”. Se si considera che, in molti casi, “le vittime del reato non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato, in quanto questi non possiede  le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito”, era doveroso prevedere – come è stato fatto all’art. 54 e, in parte, all’art. 55 - misure tese ad assicurare, per quanto possibile, un adeguato risarcimento anche in presenza di casi come quelli ai quali fanno riferimento le citate direttive europee.

Del resto la necessità di prevedere norme minime sulla tutela delle vittime del reato era già stata evidenziata nel Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, cui era seguita la decisione quadro del marzo 2001, che mira a garantire alle vittime, non solo una difesa efficace ma anche una piena tutela giuridica dei loro interessi, indipendentemente dallo Stato dell’Unione Europea in cui si trovino. La direttiva 2004/80, adottata anche a seguito dell’attentato terroristico di Madrid dell’11 marzo 2004, tende a garantire un risarcimento adeguato alle vittime di qualsiasi reato intenzionale violento. Nel codice, quindi, dovranno essere previste norme specifiche finalizzate ad assicurare un risarcimento equo alle vittime del reato. La Commissione, pur prendendo atto che, nel corso dei suoi lavori, è stato approvato uno schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2004/80/CE, attualmente all’esame del Parlamento, ha ritenuto opportuno prevedere una specifica direttiva tesa a disciplinare le modalità di tutela della persona offesa del reato, in conformità con le citate indicazioni europee,  nella convinzione che molte delle norme del decreto legislativo potranno, e in alcuni casi dovranno, essere inserite nel Codice Penale.  

 

 

 

 

XXI. Querela, istanza e richiesta

 

Le direttive di delega che trattano il tema della querela  seguono le linee di fondo della disciplina vigente, pur con alcune innovazioni di rilievo. Quale termine per proporre la querela, si è mantenuto quello attuale di tre mesi, anche se, nella parte speciale, si potranno prevedere eccezioni, quale quella oggi prevista dall’art.609 septies in caso di violenza sessuale. Si è ritenuto opportuno precisare, a livello normativo, che tale termine decorre dal giorno in cui l’offeso sia venuto a conoscenza della realizzazione del reato e che, nel caso in cui la persona offesa si trovi in stato di obiettiva soggezione nei confronti dell’autore del reato, il termine decorra dal momento di cessazione di tale stato (art. 24 lettera b). In caso di pluralità di persone offese, il termine decorre, per ciascuno dei soggetti offesi, dal momento in cui il la singola parte lesa sia venuta a conoscenza del reato: la querela proposta anche da un solo avente diritto produce tuttavia effetti anche nei confronti degli altri aventi diritto. Il progetto prevede, altresì, la scindibilità degli effetti della remissione di querela, nel senso che la remissione potrà essere effettuata solo nei confronti di taluni dei querelati, eventualmente condizionata a prestazioni risarcitorie o riparatorie (art. 24 lettera l).

 

 XXII. Prescrizione del reato 

 

L’istituto della prescrizione del reato disciplina la difficile alternativa tra punire o non punire, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo dal fatto. Nel nostro ordinamento, con particolare riferimento alla prescrizione del reato, tale alternativa è divenuta problematica a causa di una strutturale sperequazione tra tempi disponibili per il processo penale e tempi necessari al processo. Si registra cioè una permanente incongruenza tra il tempo che la prescrizione del reato lascia a disposizione dell’attività giurisdizionale e l’estensione cronologica di alcune tipologie di procedimenti penali, caratterizzati dall’elevato numero di imputati, dalla particolare composizione del quadro probatorio o dalla complessità degli accertamenti necessari per il giudizio.

Ne è conseguito che la prescrizione ha di fatto subìto una trasformazione silente a causa del complessivo mutamento del sistema penale: da strumento eccezionale, volto a conferire implicitamente una legittimazione tecnica alla permanenza del potere punitivo statale nel tempo, a congegno continuativo di deflazione e contenimento dell’ipertrofia penale.

La Commissione ha valutato diversi possibili assetti della disciplina in materia di prescrizione.

1) Quella prevista, dal 1995, nel nuovo codice penale spagnolo (art. 132, comma 2 c.p.), che stabilisce che tutta la durata del processo debba essere scorporata dal computo della prescrizione. Il legislatore iberico ha ritenuto contraddittorio permettere la prescrivibilità di un reato mentre è in corso un procedimento per accertare le singole responsabilità. Non si è ritenuto di aderire a questo orientamento in quanto la lentezza dei nostri procedimenti, derivanti dalla scarsità di risorse umane e materiali disponibili per la giustizia penale, addosserebbe il peso della inefficienza del sistema penale esclusivamente all’imputato, generando un processo tendenzialmente illimitato, che proseguirebbe anche quando l’intera collettività abbia rimosso l’impatto del reato. Dal punto di vista normativo si violerebbe inoltre in troppi casi il dettato dell’art. 111, comma 2 Cost., che sancisce il principio della ragionevole durata del processo.

2) Si è poi valutata la proposta di istituire due distinti meccanismi estintivi. Il primo (prescrizione del reato) opererebbe prima dell’inizio dell’attività giurisdizionale ed il secondo (prescrizione endo-processuale) regolerebbe la durata massima del processo, nel caso venisse instaurato. L’esercizio della prescrizione penale fungerebbe da causa di estinzione della prescrizione del reato e varrebbe come momento da cui computare la prescrizione dell’azione. Se il primo regime prescrizionale rimane pressoché invariato rispetto all’originaria configurazione codicistica, il secondo prevede distinti intervalli estintivi che valgono per ciascun grado del processo. Non esisterebbe un tetto massimo della prescrizione ed il limite finale alla durata del processo si ricaverebbe sommando i termini validi per ciascun grado, che possono inoltre subire un allungamento in presenza di cause di sospensione, che però non possono mai dilatare i termini di oltre la metà. La Commissione non ha aderito a tale proposta in quanto, sommando i tempi della prescrizione del reato ai vari intervalli che compongono il termine temporale per la prescrizione del processo (con le relative sospensioni), si giungerebbe a termini prescrizionali cumulativi eccessivamente dilatati: ad esempio 17 anni per le contravvenzioni punite con l’arresto e più di 50 anni per i delitti più gravi, stante l’operatività congiunta dei due meccanismi prescrizionali.

3) Altra proposta esaminata è stata quella contenuta nel disegno di legge  260 del 2001, primo firmatario il sen. Fassone. Tale disegno di legge delinea, al pari del precedente progetto, una prescrizione del reato assai simile a quella codicistica precedente alla riforma ex Cirielli ed una prescrizione del procedimento e prevede  un meccanismo di delimitazione temporale della prescrizione del processo penale. L’autorità giudiziaria avrebbe la facoltà di rinnovare la prescrizione tramite gli atti di cui all’art. 160 (cui si aggiungono l’iscrizione nel registro delle notizie di reato e le impugnazioni), ma tali atti dovrebbero succedersi ad una distanza temporale non superiore ai due anni l’uno dall’altro. I rilievi che sono stati mossi a tale proposta si sono incentrati essenzialmente sull’“appiattimento” del termine biennale per ogni categoria di reato (dai reati bagatellari a quelli di criminalità organizzata), che sarebbe inoltre identico per tutte le diverse fasi del processo. È inevitabile, come per il precedente progetto, il contrasto con il principio della durata ragionevole del processo, anche in quanto il tempo trascorso durante una delle diverse cause di sospensione della prescrizione del processo non ha alcun effetto ai fini prescrizionali.

 

         Le riflessioni della Commissione si sono incentrate soprattutto sul fatto che una razionale riforma di tale istituto non può non tener conto dei fattori di ineffettività dell’ordinamento penale e che la scelta tra diverse opzioni non deve essere guidata da una cornice puramente valoriale: la difesa sociale versus la garanzia del reo. Il piano esclusivamente assiologico è infatti povero di contenuto informativo per il riformatore alle prese con concreti problemi di disciplina. Inoltre, a ben interpretare l’esigenza di difesa della società dal crimine, non si riscontra nessuna implicazione in ordine alla dilatazione dei termini prescrizionali. In realtà, sia la garanzia dei diritti di imputati e rei, sia l’effettiva difesa della società dall’illegalità, puntano al medesimo risultato: l’applicazione della pena in tempi ragionevoli, comunque quanto più ravvicinati nel tempo alla commissione del reato. Non si può infatti ritenere efficace un sistema che infligga la pena a così grande distanza di tempo dai fatti, tanto da non essere più ricordato dalla collettività: una prescrizione “dilatata” non è strumentale ad un diritto penale effettivo, ma rappresenta la ratifica di un diritto penale inefficace ed incerto.

La prescrizione non può essere delineata a prescindere dal processo penale. Ce lo dice in primo luogo un carattere della disciplina comunemente predisposta dai sistemi penali: il decorso della prescrizione necessita solo di un fatto storico potenzialmente qualificabile come reato, a prescindere dalla concreta esistenza di un fatto tipico e antigiuridico rimproverabile ad una persona fisica. In altro modo, la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui si verifica un “reato in senso processuale”, una situazione suscettibile di verifica processuale e non dal momento eventuale e successivo in cui di quel reato si rinvenga un autore.

A maggioranza, la Commissione ha ritenuto che la soluzione debba orientarsi nel seguente modo:

1)      distinta regolamentazione di due regimi prescrizionali: uno precedente all’azione penale; l’altro che interviene quando l’interesse pubblico alla punizione si sia manifestato tramite l’esercizio dell’azione penale;

2)      previsione di termini del primo tipo di meccanismo prescrizionale proporzionati in funzione della gravità del reato, valutato sulla base della pena edittale, tenendo conto delle eterogenee comminatorie edittali presenti nel nostro ordinamento. A maggioranza si è ritenuto di definire tali termini per classi (numericamente ridotte) di fattispecie, come previsto dal codice penale  prima dell’attuale normativa, e non sulla base della pena edittale massima prevista per il singolo reato.

3)      dopo l’esercizio dell’azione penale, la prescrizione deve  essere delineata sulla base dei tempi di accertamento richiesti dalla tipologia del processo (definiti tramite l’individuazione di limiti temporali ben definiti).

4)      indicazioni di cause di sospensione della prescrizione cd. processuale, tra cui lo svolgimento di perizie di particolare complessità, rogatorie internazionali, impedimento dell’imputato o del difensore, dichiarazione di ricusazione ecc.

Ne consegue che la prescrizione non debba più rientrare tra le cause di estinzione del reato ma tra le cause di procedibilità (ovvero, come pare orientata la Commissione per la riforma del codice di procedura penale, come “causa di decadenza”).

I Commissari dissenzienti, in alternativa, hanno proposto una disciplina della prescrizione sostanzialmente ricalcata sul modello degli artt. 157 ss. c.p. previgenti alla legge ex Cirielli, ovvero una disciplina che si basa sull’entità della pena edittale che viene aumentata in caso di atti interruttivi e/o sospensivi. Non sono neppure mancate proposte, anch’esse respinte dalla maggioranza, di considerare unitariamente i tempi del processo ai fini di un computo globale del termine prescrizionale.

Oltra a quanto stabilito dall’art. 44 del progetto, era stata approvata la seguente  direttiva, che, data la delicatezza del tema, e considerata la ampia discussione che vi è stata in Commissione, si ritiene di dover riportare integralmente: 

“ove esercitata l’azione penale entro i termini indicati, il reato è prescritto qualora  decorrano i seguenti ulteriori termini:

a) cinque anni per la pronuncia del dispositivo che conclude il primo grado di giudizio;

b)  due anni per la pronuncia del dispositivo che conclude ogni eventuale successivo grado di giudizio.

Tali termini sono aumentali in misura non inferiore a un terzo quando si procede in ordine a taluno dei reati di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale; il corso della prescrizione si sospende in tutti i casi in cui la sospensione del processo sia imposta da una particolare disposizione di legge, nonché: a) nel caso di perizie il cui espletamento sia di particolare complessità e comporti la sospensione necessaria del processo per un periodo, comunque, non superiore a sei mesi;b) nei casi di rogatorie internazionali quando sia assolutamente necessario sospendere il processo;c) durante il tempo intercorrente tra il giorno della lettura del dispositivo e la scadenza dei termini per l’impugnazione;d) durante il tempo in cui il dibattimento è sospeso o rinviato per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore ovvero a causa dell’assenza, dell’allontanamento o mancata partecipazione del difensore che renda privo di assistenza l’imputato, ovvero per effetto della dichiarazione di ricusazione del giudice o della richiesta di rimessione del processo. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione”

         Siccome le problematiche relative alla prescrizione sono stata affrontate anche dalla Commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura penale, e dovendosi necessariamente procedere ad un coordinamento tra i testi predisposti dalle due Commissioni, peraltro di tenore simile, si è ritenuto di mantenere nel codice penale la prescrizione del reato e di demandare al codice di rito la “prescrizione del processo per decorso dei termini” (direttiva 1.8 della commissione presieduta dal prof. Giuseppe Riccio).

 

 

 

XXIII. Le pene

 

Il sistema sanzionatorio si caratterizza una ampia diversificazione delle pene rispetto a quanto previsto dal codice vigente e per il superamento della distinzione tra pene principali e pene accessorie.

 Le ragioni che hanno portato a tale scelta sono state molteplici e attengono principalmente ai seguenti nodi problematici:

a) l’inefficienza del diritto penale in molti settori, soprattutto quelli non attinenti alla criminalità comune, dipende oggi essenzialmente dall’indisponibilità di strumenti sanzionatori in grado di incidere efficacemente in senso preventivo sugli interessi in gioco. La previsione sistematica della pena edittale carceraria si è rilevata per molti versi ineffettiva e inefficace, anche in presenza di condotte particolarmente gravi: da una indagine dell’ EU.R.E.S. (Ricerche Economiche e Sociali) è emerso che dal 1995 al 2005 (prima quindi del provvedimento di indulto dell’agosto 2006) sono stati inflitti, e non scontati, oltre 850.000 anni di detenzione. Il rapporto tra anni scontati e anni di reclusione comminati da sentenze passate in giudicato dimostra che l’indice di certezza della pena, vale a dire gli anni effettivamente trascorsi in carcere rispetto a quelli inflitti, ha toccato nel 2001 la punta più bassa (38,4%) e nel 1995 la punta più alta (44,9%).

Una gamma diversificata delle pene consente di evitare modalità sanzionatorie che finiscono con l’essere troppo spesso solo simboliche e di fornire strumenti, di prevenzione e di punizione, particolarmente efficaci anche in presenza di reati economico-finanziari, ambientali, colposi, ecc;

b) le pene non detentive consentono di valorizzare l’esigenza che siano annullati i vantaggi derivanti dal reato: esigenza essenziale ai fini preventivi e, tuttavia, fino a oggi non adeguatamente considerata. Sanzioni diverse dal carcere sono altresì particolarmente idonee a fungere da disincentivo rispetto al perseguimento antigiuridico di un interesse economico, nell’ambito degli illeciti commessi per finalità di lucro;

c) la reclusione ha di fatto scarsa efficienza specialpreventiva, come si evince dagli elevati tassi di recidiva nei casi di esecuzione della pena carceraria non mediata da strumenti alternativi di reinserimento sociale: il tasso di recidiva dopo modalità sanzionatorie diverse da quella carceraria risultano di gran lunga inferiori (circa il 15%, rispetto ad oltre il 70% per chi sconta la pena in carcere). I costi economici complessivi dell’applicazione di sanzioni non aventi carattere detentivo risultano, inoltre, molto meno elevati rispetto a quelli del ricorso al carcere;

d) l’introduzione di pene non detentive costituisce una modalità attuativa sostanziale dell’orientamento previsto dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, per cui le pene sono chiamate a favorire l’integrazione sociale del condannato e non a realizzare la sua espulsione dal contesto della società: l’orientamento all’integrazione e alla responsabilizzazione non deriva da esigenze umanitarie, ma è un vero e proprio elemento strategico finalizzato alla prevenzione. Nulla come l’avvenuto “recupero” del condannato rafforza l’autorevolezza dei precetti penali e, dunque, la stessa prevenzione generale.

Sulla base di queste premesse – e dell’oggettivo fallimento, sotto ogni profilo, dell’attuale sistema penale – la Commissione ha previsto un ben diverso  sistema sanzionatorio, con l’obiettivo di realizzare il principio, così spesso richiamato nelle elaborazioni teoriche, del ricorso alla pena detentiva (soprattutto se carceraria) in termini di extrema ratio (artt.26 e segg.).

Queste le tipologie sanzionatorie proposte:

- la pena pecuniaria “per tassi” che  consente di rendere finalmente disponibile, ove ne sia adeguatamente garantita l’effettività esecutiva, uno strumento tale da poter essere modulato, in termini non desocializzanti, sulla base delle effettive condizioni economiche del condannato e che, non a caso, in molti ordinamenti europei costituisce la sanzione penale più applicata. La possibilità, che non si è ritenuto di cancellare, di comminare sanzioni pecuniarie per entità determinata consente forme di intervento mirato al valore di determinate operazioni economiche illegali, specie nei casi in cui non siano facilmente eseguibili provvedimenti di confisca;

- le pene interdittive che consentono un intervento molto mirato – senza desocializzazione detentiva e con attenzione a non privare il condannato dei presupposti necessari per la garanzia dei suoi diritti fondamentali nonché per l’assolvimento dei suoi doveri sociali e familiari – sui presupposti specifici di una data condotta criminosa: tale modalità d’intervento si è dimostrata, là dove è stata applicata, particolarmente efficace per assicurare, in settori particolarmente delicati (quale quello amministrativo, commerciale ecc.), le esigenze fondamentali della prevenzione;

- le pene prescrittive che rappresentano un importante strumento per delineare percorsi comportamentali conformi alle esigenze di salvaguardia dei beni fondamentali e per favorire condotte riparative o conciliative (anche attraverso il lavoro in favore della comunità, la messa alla prova o procedure di mediazione).  Tali pene, anche in quanto non ne è prevista la sospensione condizionale, possono essere uno strumento fondamentale per evitare quele senso di impunità, conseguente alla non effettività della pena, che è spesso il presupposto della recidiva;

- la pena detentiva, che dovrebbe anche consentire – limitando in maniera stabile la popolazione penitenziaria – interventi tesi alla risocializzazione più credibili e mirati rispetto alla situazione attuale, con un attento monitoraggio della fase del reinserimento sociale, e con conseguente rilevante diminuzione della recidiva;

- la detenzione “di massima durata”, non più coincidente con l’ergastolo ma tale da assicurare una durata assai consistente della detenzione,e in grado di garantisce dal pericolo della reiterazione di gravi reati e dalla perpetuazione dei legami di appartenenza a organizzazioni criminali, consentendo nel medesimo tempo un pur limitato adeguamento della pena alle caratteristiche del caso concreto, in conformità al principio costituzionale di colpevolezza. Le modalità previste per tale pena tendono ad assicurare un più facile realizzarsi dello scopo rieducativo richiesto dalla Costituzione, creando le condizioni affinchè la cessazione della pena – la cui possibilità è stata ritenuta necessaria dalla Corte Costituzionale anche in rapporto all’ergastolo – abbia comunque data certa, seppur secondo termini temporali molto rigorosi che non implicano un affievolimento dell’intervento sanzionatorio rispetto alla situazione attuale. Le esigenze di tutela della società sono del resto rafforzate attraverso misure di controllo specificamente previste per il condannato a pena di massima durata che torni in libertà. La previsione di una verifica periodica nel corso dell’esecuzione della pena, che subordina, anche in questo caso, a una specifica serie di giudizi positivi l’accesso nel lungo periodo a misure alternative, rappresenta un significativo rafforzamento del controllo sul percorso effettuato in carcere dal condannato e un importante fattore di stimolo, per il medesimo, alla revisione delle scelte comportamentali, nell’interesse stesso della prevenzione generale.

         La Commissione è consapevole dei rilievi che, da più parti, sono stati sollevati in merito alla gamma, ritenuta troppo vasta, delle pene non detentive previste dal progetto. Tali rilievi fanno leva soprattutto sulla difficoltà applicativa del prospetttato sistema sanzionatorio e sulla eccessiva discrezionalità che un simile sistema comporterebbe nell’applicazione e nella commisurazione della pena. Ha tuttavia ritenuto, anche in considerazione di commenti favorevoli all’allargamento della gamma sanzionatoria, di mantenere – in questa fase dei lavori – uno spettro ampio di sanzioni non detentive, con l’impegno di una ulteriore riflessione al termine del lavoro delle sotttocommissioni e, si spera, sulla base delle prime indicazioni derivanti dal dibattito parlamentare.

La Commissione, a larga maggioranza, ha ritenuto di non prevedere la pena dell’ergastolo, sostituita, come detto, con la “detenzione di massima durata”. Tale scelta è stata presa, dopo lunga e approndita discussione, pur nella consapevolezza che la decisione sul mantenimento o meno del “fine pena mai” non potrà che essere di carattere innanzitutto politico.  

      Il confronto su tale tema, particolarmente delicato, è iniziato dalle problematiche relative alla costituzionalità o meno della pena perpetua, soprattutto, ma non solo, in relazione all’art. 27 della Costituzione, se­condo cui "le pene non posso­no consiste­re in trattamenti contrari al senso di umanità".  Una pena “eliminativa”, che soppri­me per sempre la li­bertà di una persona escludendola dalla convivenza civile, non può non essere considerata una pena disumana, anche in quanto finisce col negare la dignità individuale. Proprio per questo, ad esempio, in Francia, mentre fu mantenuta dal codice pe­nale del 28.11.1791 la pena di morte, fu escluso l'ergastolo, giudicato più intollerabi­le, e si previde, come sanzione più grave dopo la morte, la pena di ven­tiquat­tro anni “di ferri”.

      L'ergastolo pone non pochi dubbi di legittimità costituzionale anche in relazione al princi­pio, parimenti stabilito dall'art. 27 della Costituzione, secondo cui le pene "devono tendere alla rie­ducazione del condan­nato". E' infat­ti evidente che, se per "rieducazione" s'intende, secondo l'opinione unanime della dottrina, la risocializzazione e il reinseri­mento sociale del condannato, l'ergastolo è logicamente in­compatibile con la finalità rieducativa della pena.

         Né basta ad escludere questa incom­patibilità la circostanza che la pena dell'ergastolo, come ha affermato la Corte Costituzionale con le sentenze nn.264 del 1964 e 274 del 1983, può non essere perpetua, in quanto l’ordinamento preve la possibilità che, a chi è stata condannato all’ergastolo, sia concessa la grazia o la liberazione condizionale. La pena perpetua, ad avviso della Commissione (nella sua ampia maggioranza) contraddice anche il principio di giurisdizionalità del­le pene, il quale esclude pene fisse, non graduabili sulla base di quel momento essenziale della giurisdizione che è la valutazione del caso concreto. E' perciò per sua na­tura una pena iniqua, soprattutto se prevista rigi­damente senza alternative edittali, in quanto non graduabile equita­tiva­mente dal giudice, che non può attenuarla sulla base dei con­creti, sin­gola­ri e irripetibili connotati del fatto (tanto più se, come prospetttato dal progetto di codice, saranno eliminate le attenuanti generiche). La pena dell’argastolo si pone anche i n contrasto con un'altra classica garan­zia, quella della proporzio­nalità delle pene: l'astratta fissità dell'ergastolo non consente insomma l'in­divi­dua­lizza­zione e l'a­deguamento della pena alla personalità del con­dannato e alla spe­cificità del caso concreto, che rappre­senta­no una di­men­sione necesaria della giurisdizione penale.

      Il superamento dell'ergastolo è anche un atto di civil­tà imposto da ragioni di carattere etico‑politi­co. L'ergastolo, infatti, non è assimila­bile alla reclu­sione, ma è una pena qualitati­va­mente diversa, assai più simile alla pena di morte. Al pari di questa, è una pena capitale, nel senso della capitis deminutio del diritto roma­no, in quanto è una privazione del­la vita futu­ra, e non solo della li­bertà e in quanto è una pena elimi­nativa che, con l'interdizione legale, esclude per sempre una per­sona dal con­sorzio umano. Equi­vale, secondo la de­finizione che ne dette l'art.18 del codice francese del 1810, alla "morte civile". D’altra parte, molti Paesi europei non prevedono la pena dell’ergastolo (Norvegia, Portogallo, Spagna, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina) e, in altri Stati, il carcere a vita, pur previsto in astratto, non viene applicato in concreto (Olanda, Polonia, Albania, Serbia, Ungheria).

      Sotto questo aspetto l'ergastolo è in contraddizione con tutta la migliore tradizione giuridica italia­na. L'Italia, è bene ri­cordare, può vantare, in materia di pene, una lunga serie di pri­mati civili. Non è solo il paese di Cesare Becca­ria, che per pri­mo conte­stò la legittimità della pena di morte. E' anche il primo paese del mondo che abolì, nel codice toscano del 1786, la pena capitale e nuovamente la soppresse in tutto il territorio nazio­nale, con il codice Zanardelli del 1789, mentre ancora re­stava in vigore nel resto dell'Europa. Ed è il Pae­se che più di tutti si è battuto, si batte, per l'eliminazione o quanto meno la sospensione della pena capitale. Sarebbe far torto a questa tradizione se quel pri­mato civile si capovolgesse nel suo contrario: l'I­ta­lia, infatti, è rimasta tra i non molti Paesi dell'Unione eu­ropea nei quali la morte civile dell'ergastolo è ancora in vigore.

      Né possono valere, a sostegno dell'ergastolo, gli argomenti di una sua maggiore efficacia deterrente. La proposta formulata dalla Commisssione - 32 anni di “detenzione di massima durata”, elevabili fino a 38 in caso di concorso di reati che prevedono edittalmente tale tipo di pena - rappresenta una prospettiva non meno terribile della pena perpetua. La sola differenza è che essi lasceranno comunque aperta una spe­ranza di vita: di una vita che, dopo più decenni di reclusione, non potrà che essere una vita diversa, così come una persona diversa non potrà comunque non essere il condannato. L’efficacia deterrente delle pene, invero, non consiste nella loro simmetri­ca brutalità, ma nella loro radi­cale asimme­tria ri­spetto alla violenza del crimine, anche il più efferato. E' in questa asimmetria tra diritto e crimine che ri­siede la maggiore capaci­tà di stigmatizzazione e di isola­men­to sociale del se­condo ad opera del primo: tanto più efficace quanto più alle lo­giche di morte che informano la violenza criminale vengono opposti il va­lore indero­gabile della vita e le forme garantiste della civile convivenza.

          La Commissione, come sopra accennato, ha riflettuto a lungo su tale tema, tenendo anche conto della contrarietà di gran parte dell’opinione pubblica e dei paventati rischi di indebolire la lotta alla criminalità organizzata, ma è pervenuta, a grande maggiioranza, alla conclusione di non prevedere la pena dell’ergastolo non solo sulla base delle considerazioni sopra sviluppate ma anche sulla base dei dati oggettivi che dimostrano come la pena perpetua, così come la pena di morte, non ha mai avuto quella efficacia deterrente che molti prospettano: in particolare, la presenza nel nostro ordinamento della pena dell’ergastolo non ha avuto un efficace ruolo di contrasto alla criminalità organizzata. E’ ormai da molti riconosciuto, che la criminalità mafiosa si combatte efficacemente, e si può sconfiggere, solo con strumenti capaci di incidere effettivamente sulle potenzialità economiche e sui vantaggi patrimoniali dei crimini collegati ad associazioni mafiose. In questo senso si è mossa la Commissione, prevedendo, da un lato, la detenzione di lunga durata per i crimini più gravi e, dall’altro, proponendo norme innovative, e incisive, in tema di confisca e fornendo, quindi, un efficace strumento per aggredire i patrimoni delle associazioni mafiose e contrastare quel potere economico criminale che oggi è utilizzato per il controllo del territorio da parte delle organizzazioni mafiose.

Già nel 1764, del resto, Cesare Beccaria definiva l’ergastolo come “pena di schiavitù perpetua” e come pena più dolorosa e crudele della pena di morte in quanto non concentrata in un momento,  ma estesa a tutta la vita. Nel corso dei lavori della Costituente, molte e autorevoli voci si espressero per inserire nella nostra Carta fondamentale un limite temporale alle pene detentive: tale proposta non fu accolta in quanto si decise di demandarla al legislatore ordinario nell’ambito di una complessiva revisione delle pene. Non si può non ricordare, infine, che nel 1998, dopo un ampio e proficuo confronto su un disegno di legge di iniziativa della senatrice Ersilia Salvato, venne approvato dal Senato della Repubblica un testo che aboliva l’ergastolo, sostituendolo con 32 anni di reclusione (XIII legislatura, atto Senato n. 211).

 

XXIV. Commisurazione della pena

 

La Commissione, preso atto delle attuali disfunzioni del modello di discrezionalità vincolata sul versante della commisurazione in concreto della pena, ha lungamente dibattuto sulle possibili soluzioni in grado di dare una risposta all’esigenza di regolamentare ex lege la questione in modo più incisivo, anche al fine di orientare il giudice, pur senza vincolarlo, verso decisioni tali da assicurare il più possibile la certezza del diritto nella commisurazione della pena.

Anche su questo tema si è tenuto conto delle soluzioni adottate dalle precedenti Commissioni e da quanto previsto in alcuni ordinamenti stranieri (es. Portogallo, Germania). L’approfondimento che ne è seguito ha confermato la difficoltà, per quanto concerne la commisurazione della pena, di realizzare forme di discrezionalità vincolata e, soprattutto, orientata a criteri finalistici indicati dal legislatore. E’ quindi parsa opportuna la previsione, analoga a quella del progetto Nordio, secondo cui “il giudice motiva analiticamente la determinazione della pena”.  Si è deciso inoltre di prevedere, oltre ai consueti indici fattuali, alcuni criteri finalistici della pena, desumibili dalle norme costituzionali (artt. 25 e 27 Cost.).

 Il riferimento alla colpevolezza è parso doveroso, rivestendo un ruolo centrale anche in tema di commisurazione della pena, anche alla luce della interpretazione della Consulta (sent.364/1988), che lo fanno assurgere a principio guida del diritto penale moderno. Si è così stabilito – al fine di evitare pene eccedenti la misura della colpevolezza (ad esempio per esigenze di prevenzione generale e/o di risposta “esemplare” all’allarme sociale suscitato dal reato) – che la pena, oltre a dover essere determinata entro il limite della proporzione con il fatto commesso, deve avere in concreto finalità di prevenzione speciale, con particolare riferimento al reinserimento sociale del condannato e con esclusione, quindi, di ragioni di esemplarità punitiva.

 

 

 

 

XXV. Oblazione

 

La Commissione ha ritenuto, pur in presenza di una sostanziale modifica del sistema sanzionatorio e della eliminazione delle contravvenzioni, di mantenere, pur con significative modifiche, l’istituto dell’oblazione la cui ratio è da ricercare anche, ma non solo, nello scopo deflattivo: permettere all’imputato/indagato di reati cd. bagatellari di estinguere il reato, previo pagamento di una somma di denaro parametrata alla pena massima, evitando così processi per reati di scarso disvalore sociale, con evidente vantaggio per la struttura giudiziaria oltre che per l’imputato che evita una condanna ma non va esente da “sanzione”. L’attuale oblazione speciale, prevista dall’art. 162 bis, ha avuto un ruolo decisamente positivo assolvendo non solo finalità di carattere deflattivo ma anche di prevenzione speciale, riparatorie e risarcitorie; tale istituto, infatti, è caratterizzato dalla facoltatività dell’ammissione alla procedura e prevede, ad esempio, che siano eliminate le conseguenze dannose o pericolose del reato (il mancato adempimento di tale condizione diviene ostativa per l’ammissione all’oblazione).

Proprio per questo si è ritenuto di condizionare l’ammissione all’oblazione – possibile per i reati puniti con pena pecuniaria o con pena pecuniaria alternativa a pena di specie diversa – alla non permanenza di conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte dell’agente. Per collegare l’istituto al disvalore del fatto si è lasciata al giudice la possibilità di non accogliere la domanda di oblazione in rapporto alla gravità del fatto: la genericità del dettato normativo potrebbe creare delle perplessità in relazione all’eccessiva discrezionalità lasciata al giudicante, ma ragioni di politica criminale hanno determinato la Commissione a propendere per il mantenimento di tale facoltà discrezionale.  

 

XXVI. Messa alla prova

 

La Commissione ha ritenuto di estendere al processo per adulti, in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva e per i reati per cui è prevista una pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, l’istituto della “messa alla prova”,  che, nel processo minorile ha dato risultati positivi in una percentuale, secondo stime del Ministero, attorno all’85%.

Tale istituto, peraltro anticipato da un disegno di legge governativo in materia di accelerazione del processo, e già approvato all’unanimità nella scorsa legislatura in sede legislativa dalla Commissione Giustizia della Camera, oltre a consentire di pervenire all’estinzione del reato (laddove la rinnovata sospensione condizionale della pena potrà solo estinguere quest’ultima), avrà sicuramente effetti positivi anche in termini di deflazione del carico giudiziario (art. 43).

Poiché tale istituto si configura come una probation giudiziale con sospensione del procedimento, la sua concessione non poteva non essere ancorata alla tipologia di pena e/o a parametri edittali: in particolare la messa alla prova sarà possibile solo in presenza di reati puniti con pena diversa da quella detentiva o con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni. In caso di esito positivo della prova, il reato si estingue.

Si è previsto, onde evitare la eccessiva cumulabilità dei benefici, che - se la sospensione del processo con messa alla prova sia stata concessa per reato punito con pena detentiva - una eventuale successiva sospensione condizionale della pena non potrà mai essere concessa più di una volta. La Commissione ha ritenuto che la disciplina concreta dell’Istituto, per il suo carattere fondamentalmente processuale, dovrà trovare spazio nel codice di rito.

 

 

XXVII.  Sospensione condizionale e altre cause di estinzione della pena 

 

I casi di estinzione della pena previsti dal progetto sono: la morte del condannato, l’indulto, la grazia, la sospensione condizionale della pena non revocata, la sospensione condizionata di pena residua, le prescrizione della pena.

Per quanto concerne l’indulto (art.46), si è inteso risolvere, disciplinandole espressamente, alcune questioni sorte in mancanza di indicazioni legislative. Si è così precisato che, in caso di concorso di reati, l’indulto si applichi sulla pena cumulata ai sensi delle disposizioni sul concorso di reati e, in caso di continuazione e in presenza di reati ostativi all’indulto, si applichi  alla pena inflitta per i reati non ostativi.

Nel dibattito sulla sospensione condizionale della pena, la Commissione è partita dalla constatazione che tale istituto ha, e può avere, carattere polifunzionale a seconda di come è prospettato e regolamentato. In particolare, può avere una incisiva finalità di deterrenza e di “intimidazione speciale”, attraverso l’istituto della revoca; può essere un autonomo strumento alternativo alla pena, anche per evitare l’ingresso  in carcere per quei soggetti non responsabili di gravi reati e per i quali vi è una prognosi favorevole; e, infine, può avere una utile ed efficace finalità sia riparatorio-risarcitoria che rieducativa, se, ad esempio, subordinata alla “messa alla prova” (o all’affidamento ai servizi sociali) e/o a prescrizioni specifiche.

Non vi è dubbio però, come è stato autorevolmente evidenziato, che “oggi la sospensione condizionale si trova al centro di una colossale contraddizione. Con i suoi tassi di applicazione che si attestano alla metà delle condanne inflitte, essa contribuisce ad assicurare la sopravvivenza del sistema complessivo. Unanime è tuttavia la convinzione nel ritenere che la sospensione, e la sua eccessiva concessione nella prassi giusiziaria, ha avuto un ruolo determinante nella ineffettività del sistema penale.

La Commissione conseguentemente ha recepito molti dei rilievi e delle critiche che si sono abbattute su tale istituto, soprattutto in considerazione della sua applicazione pratica e della profonda modifica del sistema sanzionatorio prevista dal progetto: la sospensione condizionale della pena, infatti, era stata prevista dal legislatore del 1930 soprattutto per temperare l’assoluta centralità della pena detentiva e per evitare l’ingresso in carcere nei casi in cui vi fosse stata una prognosi favorevole rispetto al futuro comportamento del condannato.

La previsione di sanzioni diverse da quella carceraria e da quella pecuniaria, e una lettura costituzionalmente orientata della pena, ha reso necessaria una preliminare verifica del ruolo da attribuire alla sospensione condizionale della pena nel rinnovato codice penale: se debba restare un istituto ancorato alla “non necessità” dell’espiazione della pena, ovvero se allo stesso si intenda attribuire un ruolo effettivo e centrale nel processo di reinserimento sociale del condannato. La Commissione, dopo aver approfondito l’articolata disciplina dell’istituto prevista dai precedenti progetti di riforma,  li ha in gran parte condivisi, pur arricchendoli con modifiche mutuate da altri ordinamenti europei, ove vi sono stati risultati unanimemente ritenuti positivi.

Le soluzioni possibili, tecnicamente, erano due: prevedere, come in Francia, due diversi istituti (sospensione condizionale “semplice” e con messa alla prova), ovvero prevedere un unico istituto, polifunzionale, in cui la sospensione possa, o debba, a secondo dei casi, accompagnarsi alla messa alla prova.

La Commissione ha optato per la seconda soluzione, prevedendo che la sospensione condizionale, oltre a poter essere mantenuta in forma “semplice” (ma pur sempre subordinata, se oggettivamente e soggettivamente possibile, ad obblighi risarcitori o riparatori), possa prevedere anche l’affidamento al servizio sociale (ovvero la messa alla prova), che diventa bbligatoria in caso di seconda concessione e che dovrebbe costituire il fulcro della risocializzazione del condannato. L’istituto così ridisegnato, e soprattutto le modifiche del sistema sanzionatorio, non potranno non determinare una rivisitazione (in positivo) dell’attuale ordinamento penitenziario anche, ma non solo, al fine di evitare una duplicazione di istituti sostanzialmente simili (che, nella prassi, hanno fatto parlare di un sistema esecutivo surrettiziamente clemenziale).

L’impostazione seguita stabilisce, sul modello di alcuni Paesi europei (Spagna e Norvegia, ad esempio), che il giudice, nel mettere alla prova il condannato, possa impartire prescrizioni comportamentali finalizzate al reinserimento sociale. Le prescrizioni verrebbero sostanzialmente ad assumere - a differenza delle attuali sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, concesse senza alcun tipo di prescrizione - una valenza “sostitutiva” della pena inflitta.

L’affidamento al servizio sociale (o la messa in prova) dovrà avere un contenuto individualizzato: a tal fine si è prevista la possibilità che il giudice, dopo la lettura del dispositivo che sancisce la colpevolezza dell’imputato, possa, se lo ritiene necessario, ad altra udienza, la decisione sulla sospensione condizionale della pena, e sulle prescrizioni, demandando ad enti appositi la redazione di una dettagliata relazione sulle condizioni di vita dello stesso, necessaria al fine della decisione, Con tale previsione non si è inteso, anche in considerazione della impraticabilità concreta di un simile sistema, aprire la strada ad una indiscriminata “bifasicità” del processo, sul modello statunitense (c.d. bifurcated system, in cui al processo sulla colpevolezza – trial – segue il c.d. sentencing process, in cui l’attenzione si focalizza sulla “personalità” del condannato), ma semplicemente dare il tempo e la possibilità al giudice di calibrare le sue scelte onde consentire una valutazione sulla sanzione più adeguata al caso concreto e alla personalità dell’imputato.

Nel corso dei lavori, la Commissione si è interrogata sull’opportunità o meno di ampliare notevolmente il potere discrezionale del giudice nella disciplina dell’istituto, essendosi persino dubitato della conformità al principio stesso di legalità della pena dell’attribuzione allo stesso di margini di discrezionalità troppo ampi. Si è tuttavia ritenuto che l’individualizzazione del trattamento non può che essere effettuata “in concreto”, e che una accezione troppo “stretta” del principio di legalità finirebbe con l’irrigidire l’istituto, rendendolo inadeguato alla sua stessa funzione.

La sospensione della pena potrà essere concessa in presenza di sentenze di condanna non superiori a due anni per le pene detentive. La Commissione, dopo aver deciso di non prevedere la sospensione condizionale per le pene pecuniarie e per quelle prescrittive, si è a lungo interrogata sulla scelta più efficace ed equa in relazione alle pene interdittive. Data la diversità di opinioni, supportate da argomenti meritevoli di particolare attenzione, si è preferito, in sede di delega, di prevedere una mera possibilità di prevedere la sospensione, per una sola volta, delle pene interdittive temporanee, demandando al legislatore delegante un approfondimento ulteriore, anche in considerazione del fatto che le  pene interdittive possono, in casi non rari, risultare particolarmente  desocializzanti.

Quanto alle pene pecuniarie, a fronte della critica secondo cui la loro non sospendibilità mal si concilierebbe col principio di ragionevolezza (in quanto sarebbe possibile la sospensione della pena più grave, quella detentiva, e non la sospensione di quelle meno gravi, pecuniarie o prescrittive), si è rilevato che la differente funzione delle diverse pene in termini di politica criminale, che si esprime nella previsione edittale, determini la possibilità di un trattamento differenziato;  per la pena pecuniaria, inoltre, non sussiste quella necessità di considerare la stessa quale extrema ratio che invece dovrebbe caratterizzare la pena detentiva.

Si sono poi previsti limiti di pena più elevati per la sospensione della pena sulla base dell’età e delle condizioni personali del condannato, mutuando sostanzialmente la disciplina da quella attuale.

Come nel codice vigente la concessione del beneficio è subordinata ad una prognosi favorevole in ordine alla futura astensione dal commettere ulteriori reati e si è stabilito che la sospensione condizionale della pena detentiva non possa essere concessa più di una volta, anche se, in considerazione dell’orientamento della Corte Costituzionale sul punto, si è mantenuta la possibilità di sospensione della pena anche a chi abbia riportato una precedente condanna sospesa, qualora la pena da infliggere, cumulata con la precedente, non superi i limiti di concedibilità (salvo, come si è detto, il caso in cui sia già stata concessa una sospensione del processo con messa alla prova per un reato punito con pena detentiva). La sospensione condizionale della pena deve essere subordinata al risarcimento del danno in favore della persona offesa, ove ciò sia oggettivamente e soggettivamente possibile, ovvero all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità e i termini indicati dal giudice nella sentenza di condanna.

            La sospensione condizionale della pena sarà revocata se, nei termini stabiliti dalla legge o dal giudice, il condannato commette un nuovo reato, ovvero viola in modo grave o reiterato gli obblighi e le prescrizioni imposte, salvo che in tal caso il giudice non ritenga sufficiente prolungare la prova o modificare le prescrizioni. In caso di revoca della sospensione condizionale con messa alla prova, dalla pena da eseguire si deve detrarre un periodo corrispondente a quello di prova eseguita, secondo criteri di ragguaglio da stabilirsi.

In sostituzione dell’attuale liberazione condizionale, si è prevista la possibilità di concedere una sospensione “condizionata di pena residua”, sul modello francese del parole, che andrebbe ad integrare, sul versante penitenziario, l’istituto della probation giudiziale (art.50).

         La Commissione ha poi ritenuto opportune alcune modifiche anche in relazione alla prescrizione della pena, come regolamentata dall’attuale normativa. In particolare, si è ridotto il termine di estinzione della pena della multa da dieci a cinque anni, specificando però che, per evitare la prescrizione, è sufficiente che entro tale termine siano iniziate le azioni esecutive: tale decisione è stata presa anche in considerazione del livello estremamente basso di somme dovute a seguito di condanna a pena pecuniaria effettivamente recuperate dallo Stato (circa il 3% del totale).

Le pene prescrittive e interdittive si estinguono in cinque anni, la pena detentiva ordinaria si estingue con il decorso di un tempo pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a 25 anni e non inferiore a 5 anni (art. 51, lettere b e c). Per le pene di massima durata non è prevista  la prescrizione (art. 52, lettera d). Anche al fine di evitare dubbi interpretativi, si è precisato che il tempo di estinzione delle pene prescrittive, interdittive e detentive sia computato dal giorno in cui diventano eseguibili (art. 51, lettera f).

In relazione alla riabilitazione, vi è stata unanimità sul mantenimento di tale istituto che ha dimostrato la sua funzione positiva in relazione al recupero del reo. La riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna, può essere concessa  decorsi tre anni dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita (o sia altrimenti estinta) e non sussistano condotte illecite di rilevanza tale da escludere l’avvenuto reinserimento sociale. Non potrà, invece, essere concessa nei casi in cui non siano state eliminate le conseguenze dannose del reato e non vi sia stato adempimento delle obbligazioni civile derivanti dal reato, salvo che il condannato dimostri di trovarsi nell’impossibilità di adempiere. La riabilitazione sarà revocata se chi ne ha beneficiato commette, nei tre anni successivi, un reato doloso.  

 

 

 

XXVIII. Sanzioni civili

 

Per quanto concerne le sanzioni civili ci si è sostanzialmente riportati al libro VII del codice vigente, con le seguenti modifiche (Art. 54). Si è però ritenuto di prevedere espressamente che il danno non patrimoniale venga determinato dal giudice in via equitativa tenendo conto della sofferenza cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo e che ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obblighi il colpevole al risarcimento, anche nel caso in cui si accerti la sussistenza della lesione di interessi legittimi (si sancisce quindi esplicitamente, anche in sede penale, la risarcibilità degli interessi legittimi). Ulteriore innovazione è rappresentata dalla previsione espressa della trasmissibilità iure proprio ai prossimi congiunti ed ai conviventi more uxorio del diritto al risarcimento del danno. Si è ritenuto necessario, inoltre, disciplinare analiticamente l’ipotesi in cui il risarcimento e le restituzioni possano essere richieste da persone giuridiche, enti o associazioni, limitando la legittimazione di tali soggetti ai soli casi in cui abbiano ricevuto un danno diretto, economicamente valutabile, ed attinente alle funzioni o scopi da loro perseguiti.

Altra rilevante innovazione è quella prevista dalla lettera e) per cui il giudice potrà, in presenza di reati di particolare natura o gravità - se non vi è stata costituzione di parte civile e la persona offesa ha espressamente rinunciato all’azione civile o non è stata identificata - disporre il risarcimento e le restituzioni,  quantificando, almeno in misura parziale, la somma dovuta, che potrà essere accantonata per un certo periodo di tempo in un fondo di solidarietà a favore delle vittime del reato, salva la definitiva acquisizione da parte del fondo medesimo. La finalità di tale norma è, tra l’altro, quella di rendere possibile, con la sentenza di condanna, un obbligo risarcitorio anche quando, come ad esempio nei casi di criminalità mafiosa, la non costituzione di parte civile deriva non da una libera scelta della parte offesa ma da una situazione “ambientale” e/o da minacce o atti di violenza. Il giudice, con la sentenza di condanna, può altresì disporre l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato non riparabili mediante restituzione o risarcimento, sempre che ciò sia oggettivamente e soggettivamente possibile (art. 54, lettera f).

 

 

 XXIX. Confisca

 

         Inizialmente la Commissione aveva previsto la confisca come  pena principale. Nel corso dei lavori è però emersa la necessità di “regolamentare” autonomamente questa figura giuridica, in considerazione del ruolo che, sempre più, potrà e dovrà, avere anche quale strumento di contrasto della criminalità.

L’istituto della confisca, infatti, ha attraversato, negli ultimi decenni, una fase di intenso dinamismo evolutivo, che ne ha comportato una crescente valorizzazione sul terreno delle strategie di contrasto della criminalità economica ed organizzata. Recentemente la confisca ha avuto un nuovo impulso con conseguente estensione sia dei casi di obbligatorietà della confisca che dei beni confiscabili; è stata altresì eliminata o attenuata la necessità di un diretto collegamento tra beni confiscabili e reato commesso.

         Una profonda trasformazione è riscontrabile già in relazione alle forme “classiche” di confisca, costruite sul modello della figura generale prevista dall’art. 240 c.p. In relazione ad esse le recenti riforme legislative si sono orientate secondo quattro linee-guida:

a)       la generalizzazione delle ipotesi di applicazione obbligatoria della misura patrimoniale, al fine di prevenire e reprimere alcune fenomenologie delittuose tipicamente produttrici di arricchimento illecito (è questa la soluzione accolta negli artt. 416-bis, 270-bis e 322-ter c.p.);

b)      la sottoposizione alla confisca anche dell’ “impiego” dei proventi del reato (cfr. gli artt. 270- bis e 416-bis c.p.), allo scopo di contrastare la complessa canalizzazione di risorse finanziarie e la combinazione di attività economiche legali e illegali, che sono tipicamente presenti sia nel contesto della criminalità organizzata, sia in quello del finanziamento del terrorismo;

c)      la previsione della confisca di valore (o confisca per equivalente), e cioè avente per oggetto beni rientranti nella disponibilità del reo ed aventi un valore equivalente a quelli che derivino dal reato e di cui non sia possibile l’ablazione (è questa la soluzione accolta negli artt. 322-ter, 640 quater e 644 c.p., che mirano a potenziare l’efficacia dell’intervento patrimoniale nel contrasto di alcune gravi forme di criminalità);

d)      il perfezionamento della disciplina di tutela dei terzi che vantano diritti sulle cose confiscate.

Nell’ambito delle strategie moderne di lotta contro la criminalità organizzata, il tema delle misure patrimoniali sta assumendo una sempre maggiore centralità, che si manifesta sia nella dimensione nazionale, sia in quella europea e internazionale. Solo con strumenti in grado di incidere in profondità sulle radici economiche del crimine organizzato, e su quella ampia rete di rapporti finanziari su cui si basa sempre di più la forza e la capacità di controllo del territorio da parte dei poteri criminali, sarà quindi possibile contrastare efficacemente organizzazioni criminali che controllano intere regioni del nostro Paese e che tendono, sempre di più, a espandere il loro potere.

Sin dall’inizio degli anni ‘80, del resto, l’intervento patrimoniale è stato considerato come uno snodo essenziale per potenziare l’efficacia dell’approccio giudiziario al fenomeno mafioso sulla base di un duplice ordine di motivazioni: la valenza dissuasiva di tipo “sostanziale” e la particolare funzionalità sul piano “processuale”, in presenza di difficoltà spesso insormontabili nella raccolta delle prove.

La Commissione ha ritenuto di cercare, attraverso una regolamentazione ampia dell’istituto, di offrire una risposta a esigenze di grande rilievo, che vanno dalla creazione di un netto disincentivo alla commissione di reati (concretizzando l’idea che “il delitto non paga”) alla tutela del sistema economico di fronte alle gravi alterazioni dovute alle infiltrazioni di organizzazioni criminali. Alla prospettiva di prevenzione speciale si affianca così quella della tutela del corretto funzionamento del mercato e della libertà di concorrenza.

La valorizzazione della confisca, su cui ampio è stato l’impegno della Commissione, è del tutto coerente con la creazione di un nuovo sistema sanzionatorio. La crisi di efficienza mostrata dal diritto penale in numerosi settori - soprattutto quelli concernenti la sfera delle attività economiche – va affrontata, sempre di più, con strumenti capaci di incidere in senso preventivo sugli interessi in gioco, annullando i benefici derivanti dal reato e depotenziando il potere economico delle organizzazioni criminali, in modo da reciderne i legami con il contesto sociale di riferimento.

 

La disciplina proposta, assai più articolata di quella vigente, distingue le diverse ipotesi di confisca, cui corrispondono funzioni in parte diverse, e propone varie soluzione che tengono conto dei principali problemi derivanti dalla maggiore importanza che l'istituto dovrebbe acquistare.

e. Quanto al contenuto della disciplina, si è cercato, anche sulla traccia del lavoro delle precedenti Commisioni,  un punto di equilibrio tra le esigenze di funzionalità e quelle di garanzia e si è tenuto conto delle principali istanze emerse nel più recente dibattito giuridico, anche a livello internazionale.

Allo scopo di potenziare l’efficacia anche preventiva della misura patrimoniale, si è prevista l’obbligatorietà della confisca delle cose servite o destinate a commettere il reato, se appartenenti a uno degli agenti, sia nel caso di condanna sia nel caso di patteggiamento (art. 55. comma 1, lettere a) b) e c).

In questa, come nelle altre fattispecie di confisca, la equiparazione della sentenza di applicazione della pena a quella di condanna, sotto il profilo della irrogazione della misura patrimoniale, porta a compimento le tendenze già manifestatesi nella più recente legislazione, che ha esteso a tutte le ipotesi previste dall’attuale art. 240 c.p. l’applicabilità della confisca nell’ambito del patteggiamento, e ha equiparato i due tipi di pronuncia anche con riguardo alla operatività delle più significative forme “speciali” di confisca (cfr. ad esempio l’art. 322 ter c.p.).

Un temperamento al regime dell’obbligatorietà è stato introdotto per gli oggetti di valore insignificante e per i casi in cui la “pena ablativa” sia sproporzionata alla gravità del fatto: in tali casi  la confisca diviene facoltativa (si è inteso, in questo modo, recuperare un margine di “discrezionalità guidata” del giudice). 

Una particolare regolamentazione (art. 55, comma 1, lettera d) è stata riservata alla complessa fattispecie delle cose destinate ad attività produttiva che abbiano assunto, in concreto, una rilevanza strumentale rispetto alla commissione del reato. Si tratta, più precisamente, dei casi in cui il reato è stato realizzato mediante cose, impianti o macchinari sprovvisti dei requisiti di sicurezza richiesti dalla legge, nell'esercizio di attività soggette ad autorizzazioni o controlli dell'autorità amministrativa (si pensi, ad esempio, alla situazione degli impianti industriali utilizzati per commettere violazioni in materia ambientale, ovvero a quella dei macchinari realizzati in modo difforme dalle prescrizioni antinfortunistiche).

L’esigenza di rafforzare la tutela dei beni giuridici posti in pericolo dall’uso di impianti e macchinari privi dei requisiti di sicurezza, viene, in questo settore, ad accompagnarsi all’opportunità di recuperare la funzione produttiva degli stessi beni, una volta assicurato il ripristino delle condizioni di corretta utilizzazione. Si è quindi previsto che la confisca intervenga soltanto nei casi in cui i suddetti beni siano stati nuovamente utilizzati senza che sia stata data attuazione alle prescrizioni impartite dall’autorità amministrativa, o comunque alla “messa in sicurezza” (comma1, lettera d). Evidentemente, la limitazione all’operatività della confisca dovrà applicarsi soltanto nei casi in cui vi sia una effettiva possibilità di allineare la utilizzazione del bene al rispetto degli standards di sicurezza.

Il secondo comma dell’art. 55 regola i casi di confisca del prodotto, del prezzo e del profitto di reato. Come era già stato previsto dai  progetti Grosso e Nordio, si è ritenuto di assimilare, sul piano della regolamentazione, alla fattispecie del prezzo del reato quelle del prodotto e del profitto. La definizione del “profitto” è stata modellata, sulla base delle indicazioni contenute nelle fonti internazionali, sulla nozione di “provento” del reato, secondo le quali esso consiste in “qualunque bene derivato o ottenuto, direttamente o indirettamente, attraverso la commissione di un reato” (cfr. l’art. 2 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, approvata a Palermo il 16 dicembre 2000). Si tratta dunque di una nozione che è suscettibile di ricomprendere, in tutte le sue possibili forme, sia il profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato che il suo “impiego”. Per tutti i beni che rientrano nelle predette categorie è stata prevista l’obbligatorietà della confisca: non si è infatti ritenuta giustificata  la differenza tra prezzo del reato da un lato, e prodotto, profitto e cose strumentali all'attività criminosa dall'altro (del profitto del reato è comunque confiscata esclusivamente la parte che non deve essere restituita al danneggiato).

All’applicazione vincolata della confisca in caso di sentenza di condanna o di patteggiamento è stata aggiunta la possibilità di prevedere la confisca obbligatoria degli stessi beni, nella parte in cui non debbano essere restituiti al danneggiato, nel caso di proscioglimento per mancanza di imputabilità o per estinzione di un reato, la cui esistenza sia accertata con la sentenza che conclude il giudizio dibattimentale o abbreviato (lettera a), comma 2, art. 55, ultimo periodo). Tale soluzione è finalizzata ad impedire che il delitto “paghi” in situazioni nelle quali la illiceità del profitto è stata accertata nel corso di un giudizio penale svoltosi nel contraddittorio delle parti, ma la possibilità di emettere sentenza di condanna è  esclusa per effetto della infermità mentale del soggetto ovvero di fattori (come la prescrizione) sopraggiunti dopo la consumazione del delitto ed idonei semplicemente a far venire meno la punibilità, per ragioni del tutto estranee alla tutela del bene giuridico. Si tratta, peraltro, di una soluzione già conosciuta dal nostro ordinamento in ipotesi che hanno avuto un considerevole impatto applicativo. E’ questo, in particolare, il caso della confisca dei terreni abusivamente lottizzati, prevista prima dall’art. 19 della L. n. 47 del 1985 e poi dall’art. 44 del D.P.R. n. 380 del 2001; com’è noto, infatti, tale misura - qualificata da una parte della giurisprudenza come misura di sicurezza patrimoniale obbligatoria connessa alla oggettiva illiceità della cosa (Cass. n. 4262 del 4/12/1995) e da altre pronunce come una sanzione amministrativa applicata dal giudice penale in via di supplenza (Cass. n. 38728 del 7/7/2004) – si applica indipendentemente dalla condanna, in tutti i casi in cui la sentenza abbia accertato l’effettiva esistenza di una lottizzazione abusiva.

Sarà anche possibile eseguire la confisca anche su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo o il prodotto o il profitto del reato (fatta eccezione per i beni impignorabili ai sensi dell’art. 514 c.p.c., necessari per consentire al condannato la conduzione di una vita dignitosa).  Viene estesa a tutti i reati produttivi di profitto la confisca per equivalente, attualmente delineata dagli artt. 322-ter, 640 quater e 644 c.p., in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, truffa ai danni dello Stato o di altri enti pubblici o aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, ed usura, nonché dall’art. 11 della legge 146/2006 (ratifica della Convenzione O.N.U. contro il crimine organizzato transnazionale).

Il terzo comma dell’art. 55 indica le linee direttive relative alla confisca delle cose intrinsecamente illecite. In conformità alla vigente disciplina si prevede, da un lato, la obbligatorietà della confisca delle cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato, e, dall’altro lato, la possibilità di non disporre la confisca quando la cosa appartenga a persona estranea al reato e la fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione della stessa possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa.

Con il quarto comma si prevede l’inserimento nel codice penale di specifiche norme volte ad adeguare la disciplina prevista dal codice penale agli obblighi imposti dalla Decisione Quadro 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 del Consiglio dell’Unione Europea, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato. L’obiettivo è quello di assicurare a tutti gli Stati dell’Unione Europea norme efficaci che disciplinino la confisca dei proventi di reato, anche per quanto riguarda l’onere della prova relativamente all’origine dei beni detenuti da una persona condannata per un reato connesso con la criminalità organizzata.

Il comma 5 dell’art. 55 prevede lo scioglimento di organizzazioni illecite e la confisca del patrimonio residuato dalla liquidazione. Tale norma, che rispecchia una analoga norma prevista dal  progetto Grosso, ha la finalità di colpire, con una misura drastica, le società o associazioni utilizzate esclusivamente o prevalentemente per la realizzazione di attività delittuose. Il campo tipico di applicazione della norma dovrebbe essere rappresentato dall’ipotesi della persona giuridica utilizzata come “schermo” dalla criminalità organizzata. Tale sanzione è stata prevista quale extrema ratio per i casi in cui la destinazione dell’attività imprenditoriale sia essenzialmente illecita, e quindi l’azienda non possa ragionevolmente essere recuperata: unanime è stata la Commisione nel prevedere la salvaguardia dei diritti dei terzi, con una norma che limiti la confisca a quella parte del patrimonio che residua dalla liquidazione (e quindi dopo che sono stati soddisfatti i creditori e i terzi in buona fede).

Per evitare l’elusione della misura patrimoniale, si è resa esplicita l'irrilevanza di una eventuale intestazione fittizia: ai fini della confisca, i beni che l'autore del reato abbia intestato fittiziamente a terzi, o comunque possieda per interposta persona fisica o giuridica, sono considerati come a lui appartenenti (comma 6). In linea con  l’orientamento che si sta sviluppando a livello internazionale, e per evidenti esigenze di garanzia, si stabilisce che la confisca non debba pregiudicare i diritti di terzi in buona fede (comma 7).

Data la delicatezza della materia si è stabilito (comma 3, n. 8) che la regolamentazione prevista dal codice penale in materia di confisca dovrà rappresentare il quadro generale di riferimento, la cui efficacia sarà estesa, salvo espressa deroga legislativa, a tutti i casi di confisca penale disciplinati da norme particolari (resteranno in ogni caso operanti le disposizioni poste a garanzia dei terzi estranei al reato).

 

XXX. Responsabilità degli enti

 

La Commissione è stata, fin dall’inizio dei propri lavori, concorde nel ritenere che la responsabilità degli enti dovesse essere  inserita nel codice penale. Infatti, con l’entrata in vigore del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 (disciplina della responsablilità ammministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica) l’inedita forma di responsabilità degli enti è entrata a tutti gli effetti a far parte del nostro ordinamento penale.

Pur in presenza di dubbi sulla compatibilità di una responsabilità penale o parapenale dell’ente a fronte del principio di “personalità” consacrato dall’art. 27 Cost., l’Italia non poteva sottrarsi alla direttiva prevista dall’art. 2 della Convenzione O.C.S.E.  sulla corruzione, sottoscritta a Parigi nel dicembre 1997, che prevede la diretta responsabilità degli enti collettivi per i reati consumati nel loro interesse o collegati a tali enti da un rapporto funzionale. Già da tempo, del resto, anche nel nostro Paese si era sviluppata una autorevole opinione della dottrina favorevole a prevedere forme di responsabilità per le persone giuridiche, anche al fine di contrastare più efficacemente il sempre più diffuso fenomeno della criminalità d’impresa. Invero, come è stato autorevolmente affermato, si è venuta creando una “realtà che si esprime e agisce attraverso i propri rappresentanti persone fisiche, nell’ambito di un rapporto di immedesimazione organica e non già di alterità”.      

In questo contesto, l’inserimento della normativa sulla responsabilità degli enti nel codice penale, pur non condivisa da tutti, si pone anche quale elemento di garanzia, non potendo, la relativa disciplina, discostarsi da alcuni princìpi fondanti previsti dalla parte generale del codice.

La Commissione aveva iniziato ad elaborare alcune specifiche direttive di delega. Poiché però, nel corso dei lavori, è stata istituita presso il Ministero altra Commissione con il compito, tra l’altro, di proporre modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, si è deciso di limitarsi a indicare, sul tema, alcuni punti ritenuti qualificanti.

Peraltro, ad avviso della Commissione, la responsabilità per reato di enti e persone giuridiche - che si è ritenuto di non dover più definire “amministrativa” - è  assolutamente indispensabile per la coerenza preventiva del sistema, specie alla luce della quantità di reati compiuti non già nell’interesse specifico della persona fisica che opera nell’ambito di un soggetto giuridico, bensì nell’interesse dei soci o degli associati. Solo attraverso una specifica penalizzazione che colpisca anche i soggetti giuridici – nei casi, evidentemente, in cui il reato risulti compiuto nel loro interesse e non sia dimostrata una credibile attivazione rivolta al suo impedimento - e, dunque, solo evitando che soci ed associati possano obiettivamente beneficiare dei vantaggi di un reato compiuto nell’interesse dell’ente o della associazione, sarà  possibile attivare una dinamica preventiva realistica, stimolando l’interesse e la disponibilità all’autocontrollo da parte dei soggetti giuridici.

         Nell’ambito del processo penale potranno, quindi, sulla base della direttiva predisposte dalla Commissione (art.56), essere chiamati a rispondere gli enti, le società, le associazioni (anche non riconosciute)  e gli enti pubblici nei limiti in cui esercitano attività economica. Inizialmente si era prevista l’esclusione della responsabilità – oltre che per lo Stato, le Regioni, altri enti pubblici territoriali e le Autorità indipendenti – anche per “gli enti di picccola dimensione”: sia perché, in caso di reato commesso nell’interesse di enti di piccole dimensioni, normalmente la responsabilità penale è attribuita direttamente a chi ha una posizione apicale, sia per evitare il rischio di un sempre maggiore ingolfamento dei Tribunali. A seguito di alcuni rilievi emersi nel corso del Seminario di Siracusa, la Commissione ha ritenuto di limitare tale esclusione agli enti di piccola dimensione che non abbiano personalità giuridica. Alla normativa sulla responsabilità degli enti, che sarà prevista anche in caso di reati in materia di sicurezza del lavoro e di reati ambientali, si applicheranno, in quanto compatibili, tutte le disposizioni del codice penale, ivi comprese quelle che prevedono misure di attenuazione o esclusione delle sanzioni in caso di condotte riparatorie.

 

Roma, 19 novembre 2007