Vittime colpevoli: bloccare l’Africa, meltingpot.org, 05/04/07

Vittime colpevoli: bloccare l’Africa.

Pubblichiamo la relazione che Federica Sossi (Università di Bergamo) ha scritto per l’Università Aperta di Rabat, incontro che si è tenuto in Marocco dal 27 al 30 marzo, durante il quale si è molto parlato di immigrazione dall’Africa e di politiche europee di esternalizzazione dei controlli alle frontiere e dei dispositivi di governo della mobilità.
Da Lampedusa al Senegal, dai cpt ialiani a Frontex, ecco come sono cambiati i viaggi dei migranti, e la percezione (imposta, costruita, sempre condizionata)che si ha di loro.

La prima volta è accaduto a Lampedusa. Un’isola, certo, ma anche un luogo che si lascia percepire come privo di spazio concreto, fisico, poiché da alcuni anni è una sorta di punto d’origine, di matrice o di concentrato di tutto ciò che avviene intorno ai migranti e che poi da lì si irradia in altre direzioni per “riaccadere” altrove. La prima volta, dunque, è accaduto a Lampedusa. Non era il primo naufragio, prima d’allora se ne erano visti altri, lì, tra quel mare, e in mari di poco distanti; prima d’allora a volte si era fatto persino finta di non vedere, come per il naufragio di Portopalo: quattro anni di silenzio sui corpi trascinati dall’acqua, talvolta ripescati e rigettati a mare dai pescatori. Ma quel giorno c’era qualcosa di diverso da cui non si poteva scostare lo sguardo. Un’immagine insolita, troppo sorprendente, un taglio nell’occhio che lo lasciava ferito e bisognoso di cure.

19 ottobre 2003. Un intreccio di corpi, di vivi e di morti, lì, alla deriva tra le acque non distanti dall’isola. Si soccorrono i vivi, che si fanno salire sulla vedetta della Capitaneria di Porto, si lasciano i morti sulla barca, trasportata a riva da un’altra motovedetta. A terra, al porticciolo dell’isola, li si ripone nei sacchi, e solo allora qualcuno si accorge del respiro di una donna. L’immagine è troppo simile a un passato dell’Europa per non farla trasalire. I giornali italiani, che da anni ormai reagivano con trafiletti sonnolenti alle notizie delle morti nel Canale di Sicilia, riportano l’accaduto in prima pagina, i telegiornali della sera ne parlano, tutti continuano a parlarne anche nei giorni successivi. Di fronte a quei morti, forse perché intrecciati ai vivi, ci si scopre umani, labili, feriti. Simili a loro, troppo simili a loro; entrambi - l’Europa intera concentrata in quella piccola isola e quegli uomini e quelle donne provenienti dai mari africani - vittime innocenti di un flagello a cui nessuno sembra saper porre rimedio. Vittime da un lato, colpevoli dall’altro. Un quadro perfetto, dai colori troppo netti per lasciarselo sfuggire.
Vittime quei morti e l’Europa, l’Italia, la Sicilia, Lampedusa; colpevoli i trafficanti degli umani, immense filiere di criminali che organizzano dall’alto l’andare dei migranti. In mezzo, i migranti vivi, in questo caso sopravvissuti, ricordati soltanto perché intrecciati ai morti, subito dimenticati nella loro sorte da vivi: per alcuni un campo, per altri un ospedale, poi per tutti un foglio di via o un altro campo, e, ancora, una vita da clandestini in Italia o in Europa. Persino il ministro degli interni Pisanu si scopre per un breve istante umano e ferito di fronte alla perfezione di quella divisione. Scuote il parlamento italiano qualche giorno dopo evocando quel naufragio come parte di “una grande, ignorata tragedia, che pesa come un macigno sulla coscienza civile dell’Europa ma chiama anche in causa la responsabilità dei Paesi da cui partono o transitano i migranti clandestini diretti in Europa”.

Vittime e colpevoli, il quadro era chiaro, da un lato le vittime, morte, dall’altro i colpevoli da perseguire, nemici delle vittime e nemici di quell’Europa così umana da sentire, in quell’occasione, il peso di un macigno sulla sua coscienza civile e da trovare persino il sindaco dell’urbe eterna pronto a pubblicizzare quell’umanità consacrando qualche minuto di silenzio e un posto in un cimitero romano alle vittime di quell’accaduto. Poco importava, in fondo, che in tutte le altre occasioni in cui i migranti non si presentano come morti l’umanità dell’Europa venga dimenticata. E poco importava, del resto, soffermarsi troppo sulla disumanità del trattamento riservato all’altra parte di quell’intreccio di corpi. Bastava quell’attimo, molto breve per l’ex-ministro dell’Interno, un po’ meno per i giornalisti e i loro giornali o televisioni, in cui ci si raccoglieva tutti ad evocare la propria umanità.

Poi il silenzio e la solita cecità. Di nuovo naufragi, di nuovo trafiletti sonnolenti e un solo bagliore: 20 giorni di prime pagine e di notiziari televisivi, affiancati da un intenso lavorio diplomatico, nell’estate del 2004. Ma poiché in questo caso tra i naufraghi non c’erano morti perché qualcuno aveva osato soccorrerli in mezzo al mare ancora vivi, quel bagliore era accompagnato da un sospetto: forse a far parte di quell’immensa e invisibile filiera capace di organizzare dall’alto il traffico degli umani c’erano anche quei soccorritori; forse i naufraghi non morti non erano così innocenti, forse erano d’accordo sin dall’inizio con i loro soccorritori, forse, insomma, erano a loro volta complici di quella filiera.

E’ la Cap Anamur. 20 giorni ad aspettare la possibilità di un approdo, armatore e comandante della nave indagati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non appena toccano terra, i migranti spostati in vari campi prima di essere rispediti in un paese diverso rispetto a quello da cui dicevano di provenire. Il quadro, con la Cap Anamur, ha iniziato a confondersi: non più una chiarezza, non più migranti morti e vittime, ma naufraghi forse colpevoli, comunque vivi e ingombranti, migranti, dunque, di cui disfarsi senza tanti problemi di umanità.

Ceuta e Melilla, un anno dopo, aggravano la confusione. O meglio, da un lato della divisione binaria ora c’è solo l’Europa, con un suo alleato, il Marocco, a combattere una guerra di difesa contro i nemici, tutti, migranti vivi e migranti morti, migranti uccisi perché comunque assalitori, come i vivi, delle mura, delle reti, delle barriere con cui l’Europa immagina e, muro dopo muro, rete dopo rete, radar dopo radar, costruisce lo spazio di “libertà, sicurezza e giustizia” dell’Unione Europea. Le filiere di organizzazione del loro andare, in quel caso, potevano essere anche dimenticate: di fronte alla capacità auto organizzativa dei migranti, in attesa dell’”assalto” tra le foreste marocchine e poi “assalitori” delle barriere nelle due notti di Ceuta e Melilla, capire grazie a quale organizzazione fossero giunti lì passava in secondo piano. Non importava che ad assalire l’Europa armata fossero gruppi di uomini e donne con tronchi d’alberi, l’assalivano, e bisognava sparare. Colpevoli i morti ammazzati, colpevoli i vivi, innocenti gli eserciti, le guardie civil, le armate degli stati attaccati e del loro alleato messo in prima linea a difenderli.

Ancora qualche mese e siamo quasi al presente. La scena si è spostata ovviamente più a Sud. Dopo aver bloccato il Marocco e lo stretto di Gibilterra, l’Europa parla, ora, attraverso le parole della Spagna, concitate e contrastanti di fronte agli arrivi nell’arcipelago delle Canarie e per qualche mese di nuovo umane, come era accaduto dopo quel giorno di ottobre del 2003 a Lampedusa. Muoiono, infatti, in molti, in questo caso forse addirittura in troppi, prima di arrivare. E tra il novembre del 2005, dopo i primi arrivi, e il maggio del 2006, si innalza un coro di voci e di numeri: quanti sono? Un vero e proprio balletto macabro, con un richiamo all’umanità e un occhio agli accordi di rimpatrio, alle pattuglie e agli altri infiniti ostacoli congiunti da frapporre all’arrivo della “valanga umana”, si alza su quelle morti, forse a commemorarle. Quanti sono? Molti, evidentemente, poiché, che partano dalla Mauritania o dal Senegal, e qualcuno persino dal Gambia, la distanza da attraversare è davvero immensa. In Spagna, una nota interna della Guardia Civil, datata 21 dicembre 2005, afferma che nel corso dei 45 giorni precedenti si erano imbarcate in Mauritania tra le 2000 e le 2500 persone, che solo 800 o 900 erano arrivate sull’arcipelago, e propone dunque la cifra di 1200/1700 morti. Siamo nel marzo del 2006, perché di questa nota interna, forse mai esistita, i mass-media iniziano a parlare solo con qualche mese di ritardo. Il direttore della Croce rossa mauritana, invece, intervistato il 7 marzo, parla di 1200/1300 morti dal mese di novembre, e stima comunque che il 40% delle imbarcazioni facciano naufragio. Migliaia di morti dall’inizio dell’anno, fanno eco ai loro colleghi i portavoce della Croce rossa canaria. Anche le cifre urlate dai rappresentanti del Governo locale delle isole si approssimano ai dati della Guardia Civil.
Durante il dibattito che ha fatto seguito al discorso alla nazione, pronunciato da Zapatero il 30 maggio, Paulino Rivero, deputato di Santa Cruz de Tenerife per la Coalición Canaria, ripropone la stessa cifra della Guardia Civil, attribuendola però al CNI, il Centro nacional de inteligencia, mentre Zapatero lo invita ad essere più prudente in assenza di dati certi, forse dimentico delle informazioni dei servizi segreti spagnoli. Consuelo Rumí si attesta, ovviamente, sulle posizioni del governo per cui lavora, i 1200 morti, per lei, sono “mera speculazione”, e prosegue richiamandosi alla sana logica di San Tommaso: non si possono fornire i numeri se non si trovano i cadaveri. Ma anche dal Senegal arrivano voci allarmate: rappresentanti governativi, Imam, ma anche madri in lutto e parenti più lontani, sono tutti attraversati dalla stessa preoccupazione. Sensibilizzare, dire ai giovani quello che rischiano, quasi bastasse a trattenerli.
In sordina, però, e dopo lo scalpore dei primi rimpatri, avviene qualcosa. Una sintesi, che l’Europa allarmata da un “assalto” di piroghe colorate lascia fare al Senegal, dalla primavera del 2006 ormai principale luogo di partenza. Gli elementi c’erano tutti, da lungo preparati e rodati negli anni in cui gli arrivi avvenivano altrove e altri erano gli stati dell’Africa da cui si partiva. C’erano le parole, le frasi, la sensibilità umana e le pratiche disumane, c’erano persino gli elementi giuridici già sperimentati in alcuni stati del Maghreb, come il Marocco, per esempio, con la sua legge dell’11 novembre 2003, “relativa all’entrata e al soggiorno degli stanieri, all’emigrazione e l’immigrazione irregolari” (“relative à l’entrée et au sejour des étrangers, à l’emigration et l’immigration irregulieres”). Come? Il regno del Marocco non aveva forse riconosciuto la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo? “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. Cosa c’entrava, dunque, quella parola “irreguliere” associata all’emigrazione? Una sottigliezza, di fronte a cui tutti avevano già chiuso più di un occhio lasciandola deliberare.
Partire, ormai, abbandonare il proprio paese, nel caso in cui fosse uno stato del continente africano, era già diventato reato. Con buona pace di quell’immagine con cui gli stati occidentali dell’Europa si erano pensati per tutti gli anni della guerra fredda a partire da quel lontano 10 dicembre del 1948, ancora sconvolto tra le rovine di un’altra guerra. Ma una sintesi così rapida, nemmeno una sintesi, un semplice taglio netto su dichiarazioni e concetti universali, il Senegal non poteva farla e per proporre quello che l’Europa gli chiedeva, imponendogli il Frontex, deve ancora oggi destreggiarsi tra sotterfugi e sussurri, strani giochi di parole in cui tutti fanno riferimento a tutto e con bizzarra capacità inventiva proclamano la necessità di una pratica ormai consueta e nascondono persino a se stessi la deduzione: vittime/colpevoli. Un ossimoro, più che una sintesi, ma l’unica logica contraddittoria ed estremamente inventiva con cui quella pratica ha potuto affermarsi: i migranti a cui il pattugliamento congiunto del Frontex, ormai quasi ininterrottamente operativo dal mese di settembre 2006, intima il dietrofront in acque internazionali o in acque ancora senegalesi, una volta di nuovo in Senegal, spesso loro paese d’origine, vengono giudicati colpevoli e imprigionati per qualche giorno o per qualche mese nelle prigioni dello stato di cui sono cittadini.
Non avviene così per rimpatriati, ormai più di 6000, che dalle isole dell’arcipelago spagnolo vengono riportati indietro senza che ci sia alcun accordo di rimpatrio. Erano partiti e sono stati costretti a ritornare, per questo sono rimpatriati. Prima del ritorno, però, erano arrivati, per questo, suggerisce qualcuno, sono e rimangono solo rimpatriati. Un po’ vittime, non colpevoli, perché nel caso fossero giudicati e condannati come tali, dal momento che sono anche vittime di un rimpatrio ci sarebbe una sollevazione generale contro il governo senegalese per sua cooperazione con la Spagna nella realizzazione dei rimpatri.
Non è così per i migranti individuati dal Frontex. Erano partiti e anche loro sono ritornati. Ma non sono rimpatriati; prima del ritorno, infatti, non erano ancora arrivati. Ritornati, non rimpatriati, e quindi colpevoli. Ma colpevoli di cosa? Di essere vittime, come deduco alla fine di una lunga indagine in cui le persone intervistate inventavano di volta in volta le più diverse e forse inesistenti leggi per trovare una risposta. “Perché hanno preso un mezzo di trasporto non regolare”, risponde il portavoce del governo senegalese per le operazioni del Frontex. “Perché uscire illegalmente da un paese è un reato, risponde un’altra autorità del governo senegalese”. No, obietto, nel caso in cui il reato di emigrazione clandestina non sia previsto. “D’accordo, ma non si poteva prevedere tutto”, è la sua giustificazione che arriva persino a immaginare un altro articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo: “ogni individuo ha il diritto di lasciare il proprio paese, se lo fa legalmente”, sotterrando così definitivamente l’universalità di quella Dichiarazione. Non c’era una legge e non ci poteva essere, ma c’erano tutte le parole, e quel quadro netto di separazione – le vittime, i migranti morti; i colpevoli, i trafficanti di esseri umani – che l’Europa aveva già provveduto a confondere, deportando naufraghi vivi e colpevoli durante l’estate della Cap Anamur. Sono state quelle parole e il primo abbozzo di una loro confusione a permettere il resto. Non c’era la legge, e c’era - purtroppo - quel solenne articolo di una dichiarazione universale, ma, in fondo, si poteva ovviare a entrambi: e se si giudicassero i migranti come colpevoli di tratta? In fondo, trasportano qualcuno, se stessi d’accordo, il proprio corpo, ma pur sempre una persona e sulla “traite des personnes et l’exploitation de la mendicité d’autri” il Senegal aveva già legiferato il 29 aprile del 2005, ben prima che le piroghe iniziassero a partire.

Ed eccoci così alla scena attuale: si fa entrare nei tribunali i migranti intercettati in quanto li si considera vittime della tratta e li si fa uscire come colpevoli, in quanto attori di un’“auto-tratta”. Lo stato protegge la vittima e condanna il colpevole, non importa che vittima e colpevole siano la stessa persona. La legge è uguale per tutti, persino in Senegal, che consegna ai propri secondini quegli individui schizofrenici, colpevoli di attentare alla propria dignità di esseri umani “auto-trattandosi”, che l’Europa gli aveva chiesto di bloccare. Umano, troppo umano aveva già scritto Nietzsche nel 1886. Un libro per spiriti liberi di cui si immaginava compagno, ignaro certamente della declinazione che tale espressione avrebbe trovato a più di un secolo di distanza contro gli spiriti liberi di un altro continente.

Federica Sossi, Università di Bergamo