Lavorare con gli invisibili > Introduzione al libro "Soltanto una vita"

 

Capitolo 12

 

I miei assassinetti

(1984-94)

   

 

 

“Un giorno (eravamo nell’eremo di Monte Giove dove i monaci camaldolesi riunivano credenti e non credenti per un proficuo dialogo) tu mi dicesti: ‘a Roma mi aspettano i miei assassinetti’. In quell’affettuoso vezzeggiativo passava tanto cristiano amore. Ed è con questo episodio che qui ti voglio ricordare, mentre tu sei transitata in quel dilà che attende tutti e dove i conti, così spesso qua in terra tragicamente dispari, saranno infine pareggiati.”

(Adriana Zarri, in ricordo di Laura, “Il manifesto”, 31 marzo 2003)


 

Prologo

 

Roma, 10 agosto 1984

Cara Laura,

abbiamo ricevuto la sua lettera che ci ha veramente colpiti e commossi. Le rispondo a nome di tutti i miei compagni per dirle che noi saremmo lietissimi di poterla incontrare per parlare con lei ed esporle direttamente tutti i nostri progetti e speranze di integrazione.

Noi la chiamiamo “la scalata al cielo” e il convegno e il teatro sono state due battaglie di una lunga guerra per il superamento dell’istituzione totale carcere: ci rendiamo conto che forse noi non riusciremo a vedere la fine di questa lunga guerra, ma l’importante è partecipare e dare il massimo del contributo possibile.

Del suo desiderio di entrare in carcere ne ho parlato al direttore, dr. Luigi Turco, che si è dichiarato favorevolissimo alla cosa. Purtroppo lei dovrebbe sbrigare alcune formalità burocratiche, quali quella di venire in istituto per fare la domanda, che dovrà poi essere inoltrata al magistrato di sorveglianza. […]Restiamo in attesa di conoscerla, nel frattempo ci scriva. Cordialmente

Salvatore B.

A nome dei detenuti del gruppo teatrale

 

Con questa lettera, si apre un capitolo nuovo, nella vita di Laura: uno dei più importanti. Lei ha settant’anni, quasi settantuno. E’ in pensione dal 1979, e dopo la pensione ha ricevuto un’onorificenza, perfino! E’ diventata, su segnalazione del Ministro della Pubblica Istruzione, “Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana”. Degna conclusione, si direbbe, di un’onorata carriera. Degno motivo per riposarsi; o per dedicarsi senza affanni al suo nuovo impegno, come consigliere di circoscrizione. O ai nipoti, magari: sono già sei, tra i quattro e i sedici anni. “A passeggio con nonna ci si diverte molto – scrive nel ’77 Giovanna, all’età di 6 anni – Bisogna sempre camminare senza fermarsi mai. Se ci troviamo in città, spiega tutte le strade e tutti i monumenti, in campagna invece corre davanti a tutti. Al mare poi nuota nuota nuota e non si ferma mai. Spesso dice: ‘Pietroooo andiamo a nuoto fino all’altra spiaggia!”[1]

 

“Nonna ci riempiva la vita…”, ricorda Marta. Poi però si riempie anche di altre cose, la vita di quegli anni. Ci sono gli affetti, le passioni civili, le speranze di cambiamento; ma c’è anche, sempre di più, l’ombra cupa del terrorismo. Entra nella vita personale, di moglie del Presidente della Camera, quando viene rapito Moro. Entra nella vita di tutti, e inquina la convivenza, la politica, il sentire comune: con la paura, e con la cultura dell’emergenza, delle leggi speciali. Quando i neo-fascisti del MSI lanciano una campagna per reintrodurre in Italia la pena di morte, Laura si sente toccata in prima persona, da qualcosa di profondo: sono pensieri di un’insegnante, scrive. Poi torna a scrivere ancora, meno di un mese dopo, per raccontarci cosa voleva dire, cent’anni fa, convivere con la morte in piazza.

 

Un anno dopo, nel 1982, la morte arriva in casa sul filo del telefono, da Bruxelles: Lucio ha avuto un infarto, l’ultimo. Era a una riunione, tanto per cambiare; un comitato di coordinamento, di quel movimento pacifista europeo che proprio in quegli anni stava diventando, per tanti di noi, una nuova identità e una nuova sfida. Un movimento antinucleare, contro la divisione del mondo in blocchi contrapposti; simile (anche se non molti lo ricordano) al nuovo pacifismo della globalizzazione e degli anni 2000, oggi abitato anche dalle mie figlie. Era anche quello, come questo di oggi, un movimento trasversale alle frontiere, alle generazioni.  C’era un posto in prima fila, nel pacifismo di allora, per i capelli bianchi di E.P Thompson[2], per il suo bel volto fitto fitto di rughe; proprio come oggi c’è un posto in prima fila per mio padre, quasi novantenne… Ci sarebbe un bel posto anche per Lucio, mi dico: per lui soprattutto. Fu lui, a portarci la prima volta alla marcia Perugia-Assisi[3]; fu lui, a insegnarci il significato della parola nonviolenza, quando nel lessico dei comunisti era ancora un tabù.

 

In quegli anni di piombo, in fondo, è nonviolenza anche la scelta di mia madre, di tornare fra i detenuti mentre intorno si parla di pena di morte. Tornarci in quell’anno, il 1984, a ritessere il filo con un fratello ex-carcerato, che se n’è appena andato eppure c’è ancora. Riascoltare, forse, anche le parole di Giuseppina, che se ne era andata nel ’70. Era stata lei, negli anni ’40, a tradurre Sofocle: a rimeditare su Antigone, sul diritto e sulla guerra.  “Poiché il teatro della vita e della morte non sono più, come vorrebbe il naturale equilibrio, incomunicabili e distinti. Un profondo scompenso li confonde, li sovverte, li corrompe.”[4]  Forse Laura le rilegge, quella sera, queste parole antiche di sua sorella: quando vede Antigone messa in scena da attori detenuti, in carcere. O forse no, forse si porta dietro solo gli echi di un’emozione profonda – di quel momento tremendo, che Pietro continua a ricordare anche oggi: “quel momento al buio, che ti si chiude il portone alle spalle, e loro sono dentro e tu sei fuori. E sei in un altro mondo, in un altro pianeta.

 

Laura se lo portava dentro da tempo, quell’altro pianeta che aveva conosciuto ragazza, nel 1939. Ne scrive di nuovo nel ’77, ricordando il Natale dell’arresto di Lucio. “A tutti quelli che allora, più tardi ed oggi, per un motivo o per l'altro, per motivi ignobili o nobili, per illusioni, per follie, per disperazione, per calcolo, sono finiti o finiranno in quelle zone, per tutti coloro quel mio ricordo vuole essere un'unica, modesta, ingenua immagine di solidarietà.[5]

 

Alle elezioni del 1985, quando le chiedono di ripresentarsi per il consiglio di circoscrizione, mia madre rifiuta: ha altro da fare, ormai. Fa l’insegnante volontaria, in carcere.

 

E’ un carcere “aperto”, quello di Rebibbia, nonostante tutto. Sono gli anni ’80: anni di sangue e di detenuti in rivolta, di carceri di massima sicurezza e di evasioni. Eppure, non è aria di anni di piombo, quella che si respira a Rebibbia: con il cortile affollato e le celle sempre aperte, con i detenuti che lavorano, studiano, fanno sport e teatro… Senti un’eco di anni ’70, a Rebibbia, della critica radicale di Basaglia[6] alle “istituzioni totali”. E’ questa, in fondo, la sfida della “legge Gozzini”, che dopo la riforma carceraria del 1975 ha introdotto nei luoghi di detenzione italiani la possibilità del lavoro e dei permessi fuori dal carcere: la cultura della dignità, della riabilitazione, al posto di quella della punizione e della pena. E’ per applicare quella riforma, per mettere in pratica quell’utopia, che il Direttore di Rebibbia Luigi Turco, e la vicedirettrice Maria Pia Frangeamore hanno bisogno di aprire il carcere, e non solo agli insegnanti: a registi, psicologi animatori. Volontari e volontarie, di tutte le età e di tutte le culture – non per offrire pietismo, o assistenza; ma per cambiare l’istituzione, le dinamiche, i rapporti di forza. 

 

Prima che entrasse il volontariato, – racconta Maria Pia Frangeamore – c’erano due forme di potere, in carcere: gli agenti di custodia e i boss. Nella sostanza, erano i boss a comandare: a decidere chi lavorava e chi no, chi poteva studiare, o fare teatro, o telefonare alla madre… Andava bene anche agli agenti, in fondo. Con i boss la situazione era sempre calma, sotto controllo; non importa a quale prezzo, con quanta violenza. L’essenziale, per gli agenti, era non essere svegliati di notte, non dover correre di qua e di là… Che non scoppiassero casini, insomma. Forse anche per questo, gli agenti ce l’hanno sempre avuta con i volontari, sin dall’inizio. E boicottavano e borbottavano, continuamente, contro ‘questi che scelgono di far lezione gratis ai delinquenti, mentre a mio figlio servono le ripetizioni di matematica e io le devo pagare, e devo pagare il pallone per giocare, e la maglietta, e tutte le cose che voi gli comprate gratis, a ‘sti delinquenti…’”

 

Nonostante i mugugni degli agenti, furono sempre più numerosi, “quelli che facevano lezione gratis ai delinquenti”. Le elementari e poi le medie, con l’esperienza delle 150 ore[7], che era partita dagli operai, e si era trasformata in riappropriazione di cultura per tutti: casalinghe, disoccupati, e ora anche detenuti…  “A un certo punto – racconta ancora Maria Pia – decidemmo di tentare anche con le superiori, e introducemmo il corso di ragioneria. Laura è arrivata poco dopo, e con lei il corso per le magistrali. In poco tempo, Rebibbia si è trasformata in un luogo nuovo, dove per i boss non c’era più spazio: perché a quel punto erano i volontari, che si occupavano di telefonare alle fidanzate, che moltiplicavano le occasioni di lavoro, di studio, di contatto con l’esterno… Che ci telefonavano alle 7 di mattina, magari, come faceva Laura, con una lunga lista di cose da fare: Manfredo ha bisogno di un permesso, Sergio deve farsi una visita medica, Giovanni deve parlare con la madre, e Riccardo…”

 

Erano tutti detenuti comuni, Sergio e Giovanni e Manfredo: in carcere per furto, per rapina, o anche peggio. I miei assassinetti, appunto. Con gli altri assassini, quelli che avevano ucciso per motivi politici – con i terroristi, insomma, sia rossi che neri – Laura rifiutava di lavorare, categoricamente. “I politici non hanno bisogno di me – diceva –  A loro ci pensano in tanti, hanno tutta l’attenzione, stanno sotto i riflettori. Sono i comuni, che sono dimenticati da tutti.  E’ con loro, che bisogna lavorare...”

 

Lavorare, e non solo per far scuola. O piuttosto, fare scuola come sempre, come all’Oriani: conoscere i propri allievi non solo come allievi, ma come persone intere, a tutto tondo. La vita, i problemi, i parenti. Le lettere, quando li trasferivano in altri carceri: i pensieri reconditi, quelli che solo alla carta si affidano. E poi le paure, le sconfitte, i successi. Sembrava un successo, la storia di Giovanni G.: un giovane intelligentissimo, che scriveva poesie. “Va così anche perché non ha mai fatto scuola – diceva mia madre – dunque ha la mente libera, e vede cose che altri non vedono”. A Rebibbia, Giovanni aveva fatto le medie, le magistrali, l’università: un lavoro splendido. Poi era uscito dal carcere, finalmente.

 

“Era uscito da poco – racconta Maria Pia –  e un giorno di botto me lo vedo davanti, in ufficio. Era furioso: ‘voi mi avete truffato – mi ha detto – mi avete fatto credere che potevo cambiare; ma non è vero, non è possibile. Sono cambiato, ma il lavoro non lo trovo comunque. Esco con gli amici, e non posso più parlare di nulla, e con le ragazze è peggio che mai: non posso mica parlarci di Verga.. Una cosa sola, posso farci, e dopo resto solo comunque, perché donne come voi fuori non ce ne sono, non esistono..’  Aveva 23 anni, Giovanni, e queste cose le diceva a me che ne avevo 45; o parlava di Laura, che ne aveva quasi 80… Voi mi avete truffato, ripeteva. E poi è successo che ha rubato di nuovo ed è finito di nuovo in galera; ma non da noi, lontano. Un fallimento, dicevo io, un fallimento totale. Laura no: lei l’idea del fallimento non l’accettava proprio… Noi non possiamo giudicare, diceva.”

 

Non giudicava, mia madre: lei che con se stessa, e anche con noi, era stata un giudice fin troppo esigente. “Quello che non accettava - ricorda mio padre - non era solo l’idea della pena: era il concetto di colpa, legato a quella persona… Come se il reato, la violazione, fosse un episodio isolato, staccato dalla vita dell’individuo che aveva davanti”. 

 

Certo, poverino: quello ha fatto solo due rapine, che sarà mai?”, la sfottevamo noi figli, quando ci sembrava che esagerasse un po’ troppo. Solo una volta, lo sfottò è diventato litigio: quando parlavamo di  Franceschini, il brigatista “dissociato”[8] che le aveva fatto cambiare idea sul lavoro con i detenuti politici. “Fu un fatto preciso, a farle cambiare idea –spiega Maria Pia – Me lo ricordo benissimo: fu la volta in cui Franceschini decise di andare a parlare in un convegno a Bologna, per dire a tutti che il terrorismo era finito. Era una cosa molto rischiosa, allora. Rischiava di essere ammazzato: c’erano un sacco di indicazioni, in quel senso. Lui, niente: è voluto andare lo stesso. Se mi ammazzano, pazienza, ha detto. E’ da allora, che Laura ha cominciato a parlare con Franceschini; poi si è sviluppato un rapporto molto bello, fra loro due.

 

E’ solo per caso, in fondo, mi ha detto mia madre quella volta, che uno come Franceschini è diventato brigatista; mentre voi, che avevate vissuto lo stesso sessantotto, avete preso altre strade. Come sarebbe un caso, quale caso?, ho gridato io. La nonviolenza è una scelta, che c’entra il caso… Abbiamo discusso a lungo, furiosamente. Lei insisteva, io pure. Rivendicavo il mio libero arbitrio: la mia identità, la nostra storia comune. Avevo ragione, credo. Eppure ancora oggi,  di quando in quando, mi torna in mente quel litigio, e ancora mi interrogo.

 

Domande dure, senza risposta. Su di noi, su di loro, su quegli altri: quelli di oggi, che nessun volontariato raggiunge. E quelli di allora, che mia madre non raggiunse mai, perché non volevano essere raggiunti. Quelli che preferivano le porte sbarrate, al carcere aperto: perché avevano paura, del contatto con gli altri. “Perché in fondo – dice a Maria Pia uno di loro, un brigatista – io sto peggio qui che nel carcere duro, all’Asinara. Perché lì ti mancava tutto, dagli alberi agli sguardi all’aria. Qui no. Qui puoi muoverti, lavorare, studiare, puoi persino giocare a pallone…E così la vedi in tutta la sua crudezza, intollerabile e senza veli, l’unica cosa che ti manca: la libertà. Così alla fine i più infami siete voi, non loro: perché io i miei carcerieri ho bisogno di odiarli, e con voi non ci riesco. Anche questo, mi togliete: questo odio, che è la mia unica capacità di reagire.”

 

Se ci siano altri modi, per disinnescare quell’odio, io non lo so; come non lo sapeva mia madre. Quello che so, quello che ci balza agli occhi ogni giorno, è il prezzo terribile che si paga quando si smette di tentare: quando si risponde all’odio con la stessa moneta.

 


 

 

 

TESTI

 

12.1. Pena di morte: pensieri di un’insegnante(“Paese Sera” 17 febbraio 1981)

12.2. La morte in piazza (Rinascita, 13 marzo 1981)

12.3. Oltre quelle mura… (l’Unità, 13 ottobre 1987)

12.4. Studiare in carcere (Paese Sera, 2 dicembre 1985)

12.5. Dare una mano (Ora d’Aria, 1988 circa)

12.6. Ma sono uomini o sono “zombi”? (La Repubblica, ferragosto 1986)


 

[1] Giovanna Giorgini, “Romanzo di nonna Laura”, da Per Laura, op.cit., p. 54. Ai funerali di Laura, il testo è stato letto collettivamente da tutti i nipoti, un pezzo ciascuno.

[2] E.P. Thompson (1924-1993), filosofo e storico, è stato uno dei più importanti dirigenti e teorici del nuovo pacifismo europeo degli anni ’80, impegnato non solo contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing nei paesi della NATO, ma per lo smantellamento dei missili sovietici SS20), per la democrazia e i diritti umani, per una “Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali”.

[3] La Marcia per la pace da Perugia ad Assisi fu ideata dal più grande teorico italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, e si tenne per la prima volta nel 1961. Lucio, che era stato fra i promotori, volle portarci i figli e tutte le nipoti. L’esperienza della Marcia fu ripresa nel 1978, nell’ambito del nuovo movimento per il disarmo, e poi (nel 1981, nell’85 e nell’88) contro i blocchi militari e l’installazione degli euromissili. Nel 1990 fu una grande manifestazione contro la guerra del Golfo, poi nel ’92 e nel ’93 per la pace nella ex Jugoslavia. A partire dal 1995 la Marcia Perugia-Assisi, che si tiene ogni due anni, è preceduta dalla “Assemblea dell’ONU dei Popoli”, in cui si incontrano i rappresentanti della società civile di tutto il mondo.

[4] Giuseppina Lombardo Radice, Introduzione a Sofocle, Antigone, Einaudi, 1966 (prima edizione 1948).

[5] Vedi cap 3, Testi: “Li arrestarono in dicembre”.

[6] Franco Basaglia fu Direttore dell’Ospedale psichiatrico di Gorizia dal 1961 al 1969, e iniziò da lì l’esperienza di una psichiatria completamente nuova, non più costrittiva e punitiva, ma fondata sul recupero del paziente come persona. L’esperienza e le teorie di Basaglia portarono nel 1978 alla legge 180 sulla chiusura dei manicomi e il reinserimento sociale dei malati di mente, ed aprirono la strada a esperienze nuove anche in altre “istituzioni totali”, come il carcere.

[7] Il diritto a 150 ore di permesso per il diritto allo studio fu introdotto nel contratto dei metalmeccanici del 1972. A partire da quella conquista, si svilupparono negli anni seguenti molte iniziative per moltiplicare le occasioni di studio per i lavoratori, sperimentando contemporaneamente nuovi contenuti e modalità di apprendimento e di produzione culturale, soprattutto nella scuola dell’obbligo.

[8] Furono definiti “dissociati” i brigatisti che rompevano con il terrorismo, ma rifiutavano di denunciare i compagni o collaborare con la giustizia in altro modo, come facevano (e fanno) i “pentiti”; mentre gli “irriducibili” mantengono immutate le proprie posizioni e le proprie scelte. Alberto Franceschini è stato, con Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, ma non ha mai ucciso.