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Fine pena? Mai. In carcere tutta la vita, l'altra “pena di morte”, di A. Antonelli, Liberazione 7/3/‘07

 

 

 

La vita e la morte. Per sempre e mai più. Dietro le sbarre gli estremi si toccano, declinazioni opposte e uguali della parola “fine”. E l’ergastolo e la pena capitale sono due sciacalli che percorrono lo stesso miglio verde dell’inciviltà giuridica. Una strada che ci parla di aberrazioni e di sconfitte, dell’uomo e del “sistema”: sanzioni eliminative, neutralizzazione fisica e morale, l’impossibilità di un riscatto sociale, lo svilimento della stessa ragione della giustizia, che diventa accanimento, vendetta. Soppressione.

 

Il nesso è logico, necessario, eppure ardito. Tanto che oggi i promotori della legge per abolire il carcere a vita, e chiedere di pari passo una moratoria immediata della pena di morte, sono costretti ad autoproclamarsi “rivoluzionari”. Si tratta di una rivoluzione assai strana, se a distanza di tre secoli occorre scomodare il buon vecchio Beccaria. Ma tant’è, e occorre provarci. Con convinzione. Rifondazione comunista è in prima linea: contro le pene disumane. Il convegno organizzato dall’area nuovi diritti e poteri istituzionali del partito, che ha chiamato a raccolta parlamentari, associazioni ed esponenti del governo, è stata l’occasione per ribadire un “sì” e due “no”. Il “sì” è alla commissione parlamentare sui diritti umani, che dovrebbe vedere la luce fra due settimane. I due “no” riguardano pena di morte ed ergastolo.

Sul primo punto c’è l’avvio di un impegno internazionale, propiziato da un grande lavoro del governo italiano, affinché la moratoria torni prepotentemente nell’agenda delle Nazioni Unite. Il sottosegretario agli Esteri Bobo Craxi assicura che ci sono aperture da parte di paesi prima recalcitranti , <orecchie attente a comprendere il valore della battaglia>. Ma c’è la sensazione che ciò riguardi destini “altri”, quando invece dei 54 stati in cui è in vigore la pena di morte, 10 appartengono al novero delle cosiddette “democrazie liberali”.

Il vero scoglio, la scommessa più difficile di casa nostra, è l’altra “pena di morte”: quella che dura tutta la vita. Alla Camera da ottobre c’è un progetto di legge per abolire l’ergastolo a firma di tutti i parlamentari del Prc. Si spera che stavolta non ci siano intoppi, come quelli che nel 1998 fecero naufragare un’analoga proposta della senatrice Ersilia Salvati: allora sembrò che si fosse trovata un’ampia convergenza tra le forze politiche, ma dopo il sì di palazzo Madama arrivò lo stop di Montecitorio. Oggi l’esito è altrettanto imprevedibile: se sulla riforma del codice penale – riconosce Arturo Salerni, responsabile carceri di Rifondazione – c’è unanimità nell’Unione, non si può dire lo stesso sull’abolizione del carcere a vita. Ma è proprio la riforma del codice l’occasione d’oro da non sprecare. In quel contesto l’eliminazione dell’ergastolo, fa notare il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, potrebbe generare un utile effetto domino per ridurre tutte le altre pene. E dunque produrre una umanizzazione del sistema penitenziario in generale.

Se si parte da lì, riflette Imma Barbarossa, dal bisogno di umanizzare la giustizia, si riesce a capire che la cancellazione delle pene definitive, ergastolo e pena di morte, è il comune approdo della stessa battaglia di civiltà. Un approdo già inscritto nel dettato costituzionale, laddove all’articolo 27 si prevede che la pena abbia finalità rieducativa. E se è vero che la carta fondamentale nulla dice sull’eliminazione dell’ergastolo, è altrettanto vero che gli stessi padri costituenti, con il “lodo Dossetti”, avviarono una discussione per invitare il legislatore ad agire in quella direzione. Sono passati sessant’anni e quella battaglia di civiltà è ancora attuale. Né si può dire che la vittoria sia dietro l’angolo dal momento che, argomenta l’europarlamentare del Prc-Sinistra europea Giusto Catania, bisogna fare i conti con un lento, graduale arretramento della cultura giuridica europea, in cui il precipizio è rappresentato dall’adesione acritica alla nuova guerra al terrore, in nome della quale i diritti vengono sospesi.

L’unico modo per blindare questi diritti, allora, è fare in modo che l’abolizione delle sanzioni definitive sia ricondotta nel recinto dei valori non negoziabili, dei beni non disponibili. E per far ciò, incalza il sottosegretario alla Giustizia Luigi Manconi, è necessario oltrepassare i confini statuali, interrogare un impegno sopranazionale. E costruire un nuovo senso comune. Con una precisazione scomoda ma essenziale: che cadano tutti gli steccati, comprese le rigidità, lo spirito di conservazione e i residui di autoritarismo che albergano anche in una certa subcultura di sinistra. Manconi porta ad esempio la <galvanizzazione sentimentale delle masse> in occasione dell’indulto. Ma il monito è valido per tutti gli approcci erronei ai problemi della giustizia, perché c’è da vincere quello che Giovanni Russo Spena definisce un <giustizialismo istituzionale> che risponde alla domanda di sicurezza della società solo con l’inasprimento delle pene.

L’obiettivo è invertire la rotta. Radicalmente. Nella pratica della giustizia e nella cultura sociale. Messa così, allora, la parola “rivoluzione” fa meno sorridere.

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