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Libia tra passato e presente, dai lager italiani ai cpt, Il Manifesto, 10/12/06

Libia tra passato e presente, dai lager italiani ai cpt
Angelo Del Boca
Nell'estate di 76 anni fa, e precisamente il 20 giugno 1930, dopo che il generale Graziani aveva inutilmente dato la caccia ad Omar Al Mukhtàr, il capo della resistenza anti-italiana in Cirenaica, il governatore generale della Libia, Maresciallo Pietro Badoglio, inviava a Graziani una lunga lettera nella quale, dopo avere espresso l'opinione che la controguerriglia tradizionale non avrebbe mai dato alcun frutto e che era necessario adottare nuovi metodi, anche se severissimi, aggiungeva: «Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale, largo e ben preciso, tra ribelli e popolazione. Non mi nascondo la portata e la gravità del provvedimento, che vorrà dire la rovina della popolazione sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine anche se dovesse perire tutta popolazione della Cirenaica».
Quest'ordine crudele, che Graziani prontamente eseguiva, provocava la deportazione dell'intera popolazione della Cirenaica e il suo internamento in tredici campi di concentramento nel sud-bengasino e nella Sirtica due fra le regioni più inospitali del paese, con un bilancio approssimativo di 40mila morti su di una popolazione carceraria di 100mila, vale a dire una percentuale di vittime superiore a quelle riscontrate nei lager nazisti.
Il 12 dicembre 2006 si apre a Tripoli, promosso dall'Associazione per la storia e la memoria della Repubblica e dal Libyan Studies Centre, un convegno dal titolo: Colonialismo italiano e campi di concentramento in Libia (1929-1943), che farà il punto su uno dei peggiori crimini del fascismo. Nel mio intervento, che apre il convegno, osservo: «L'argomento dei campi di concentramento libici non è stato a sufficienza indagato e presenta ancora oggi vistose lacune. Sappiamo dalle testimonianze raccolte da Eric Salerno, come vivevano e morivano gli internati nei lager. Non conosciamo, invece, il numero esatto dei reclusi e dei decessi. Come ignoriamo il numero dei libici deceduti nelle marce di trasferimento, in gran parte abbattuti a fucilate se solto rallentavano il passo.
Manca anche una precisa ricostruzione del campo di concentramento, poiché le mediocri fotografie di cui disponiamo sono avare di dettagli, quando non sono immagini truccate. Così come non sappiamo, con precisione, a chi fosse affidata la custodia dei campi, e per quali motivi, ogni giorno, venissero eseguite tante impiccagioni e fucilazioni, di cui nessuno ha tenuto la macabra contabilità. Sarebbe anche interessante reperire le relazioni dei pochi medici che hanno operato nei lager e conoscere l'atteggiamento dei funzionari coloniali dinanzi alla furia distruttrice di Graziani. All'odierno stato delle ricerche, siamo al corrente che soltanto il commissario Giuseppe Daodiace cercò di opporsi agli ordini di Graziani. "Che io non li approvassi - scriveva il 7 gennaio 1951 - risulta dalle ripetute mie proteste, scritte ed orali, per il fatto che non si facevano mai prigionieri in occasione di scontri fra le nostre truppe e i ribelli e si fucilavano anche donne e bambini"».
Concludendo il mio intervento sottolineo un problema contingente che, purtroppo, rivela analogie con i lager del passato: «Prodotto tipico dell'odio e del disprezzo per un avversario che si vuole annientare, il campo di concentramento ideato e costruito dagli italiani in Libia è, insieme alla forca, lo strumento repressivo più crudele e malvagio che mente umana abbia potuto escogitare. Oggi ne parliamo per delinearne tutti i macabri aspetti, ma anche nella speranza che simili strumenti siano banditi per sempre. Pur rendendomi conto che i cpt istituiti in Libia negli ultimi anni con il consenso e il finanziamento delle autorità italiane, non si possono configurare come autentici campi di concentramento, essi rientrano tuttavia in quel novero di strumenti odiosi di repressione che credevamo estinti».
Per una succinta descrizione dei cpt, riferisco alcuni giudizi di persone che di recente hanno potuto visitare questi campi. Ha scritto un giornalista Jas Gavronski il 22 maggio 2005 dopo una visita al campo di Eli Fellah, alla periferia di Tripoli: «Eli Fellah straripa di inumanità, di brutture da terzo mondo. Come straripano dalle inferriate strette che danno sul cortile, i resti di cibo buttati verso gli "stranieri" assieme alle coperte unte, agli stracci, a immondizia varia. E' il modo in cui i rinchiusi ci dicono come sono trattati, mentre noi passiamo vicino ai loro stanzoni a cercare la dignità umana richiesta dall'occidente e scopriamo che qui non sanno cosa sia». Qualche mese dopo il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde, visitava il cpt di Sebha, per poi riferire al Copaco: «Il centro prevede di ospitare 100 persone ma ce ne sono 650, una ammassata all'altra, senza il rispetto di alcuna norma igienica e in condizioni terribili».
Poiché la responsabilità dell'ideazione e della costruzione in questi campi va divisa tra i governi di Roma e di Tripoli, pur riconoscendo che la finalità di questa operazione è cercare di risolvere un problema grave e urgente, siamo contrari a forme repressive che purtroppo ricordano l'oggetto del nostro convegno. E vorremmo che da questo convegno uscisse una precisa, inequivocabile condanna dei cpt ed un invito a ricercare strumenti più umani per risolvere i problemi della convivenza. Aggiungere sofferenza a sofferenza non fa che acuire il contrasto fra il sud e il nord del pianeta con tutte le conseguenze che sappiamo.

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