di Stefania Tallei (Comunità di Sant’Egidio)
Fino a prima dell’indulto nelle carceri italiane c’erano tra i 50 e i 100 bambini di età zero-tre anni. A Roma, nel carcere di Rebibbia, la concentrazione maggiore: l’inverno scorso hanno superato le 25 presenze. Le loro madri sono spesso ragazzine poco più che maggiorenni. Vivono in sezioni separate denominate "nido". Sembrano numeri esigui, che non fanno notizia. Ma si tratta di bambini in carcere. Che non conoscono un rapporto normale con il mondo circostante. La detenzione di questi bambini è una pena aggiuntiva per le madri e un’ipoteca sulla loro vita. Lo sviluppo psico-fisico è rallentato. Parlano tardi e poco rispetto agli altri bambini. Piangono molto e sorridono poco. Irrequieti, con difficoltà ad addormentarsi e con bruschi risvegli nella notte. Sono sintomi dei danni che la detenzione arreca al bambino. Danni che porterà con se nella sua vita futura. Non se ne parla mai. Proviamo a immedesimarci.
Pensiamo a un bambino che esce all’aperto per fare "l’ora d’aria", che vive con persone in divisa blu, che abita un ambiente con le sbarre alle finestre. Pensiamo a cosa vuol dire non aver mai visto bene i prati, gli animali, ma pure un normale giornalaio che vende le figurine o un supermercato dove spingere il carrello, non aver mai visto il mare o un bosco, un telefonino, non aver mai fatto una passeggiata con i propri nonni.
Pensiamo a una madre che parte assolutamente screditata e cammina in salita per esercitare un ruolo autorevole, ancora più necessario. Una madre che non ha le chiavi di casa, che non apre mai la porta e non esce mai. Che non può comprare un giocattolo, un dolce, che dipende in tutto dalle persone con la divisa blu e viene sottoposta a perquisizioni. Una madre che vede portar via il suo piccolo allo scadere dei 3 anni. C’è qualcosa contro natura e che alla fine si scarica in maniera violenta contro vite individuali e contro la società che sa immaginare solo questo.
Quando un bambino deve essere ricoverato viene portato in ospedale da un agente e lì è lasciato da solo. Con la Comunità di Sant’Egidio ci è capitato di stare vicino a bambini presi da crisi di pianto irrefrenabile, disperati, che pensano ogni momento di essere abbandonati e credono di essere colpevoli di qualcosa che non hanno fatto, causa dell’abbandono che sentono sulla pelle, nel ghiaccio affettivo. Le madri dovrebbero essere con loro, ma il permesso del giudice a volte arriva troppo tardi.
In carcere ci sono anche donne in gravidanza. Aspettano come tutte il momento del parto con ansia. Ma sono sole, senza parenti, e temono che non si faccia in tempo, al momento delle doglie, ad arrivare in ospedale. È un’angoscia diffusa. La vita dei bambini in carcere comincia così, prima di cominciare ufficialmente. Dopo il parto vengono riportate in carcere in gran fretta e se il bambino ha dei problemi resta in ospedale, da solo.
La maggior parte delle madri detenute sono giovani nomadi arrestate per piccoli furti. Anche reiterati, ma comunque non comparabili con i reati contro la persona. Talvolta sono giovanissime. Straniere con una scarsa conoscenza della lingua italiana. Straniere anche al nostro sistema penale. Conosco molte donne che non hanno i soldi per l’avvocato.
La legge n. 40 dell’8 marzo 2001 ha introdotto la possibilità che la madre condannata sconti la pena a casa coi propri figli per svolgere in modo "naturale" il ruolo di madre. Restano però ancora in carcere molte giudicabili, molte recidive.
L’8 maggio 2006 è stata presentata una proposta di legge dal titolo "Disposizioni per la tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori". Punto centrale è la realizzazione di case-famiglia protette per tutti quei casi in cui non siano possibili misure di sospensione o comunque alternative alla carcerazione, sia preventiva che definitiva. Senza sbarre e senza divise, ma senza rinunciare alla sicurezza, si mettono al centro le esigenze del piccolo per garantire un sano sviluppo, in un ambiente più idoneo e più umano: diverso dal carcere. La proposta è in corso di esame in commissione dal 13 settembre. È una scelta di civiltà necessaria. Con l’Associazione "A Roma insieme" e Leda Colombini sosteniamo con firme e con impegno pubblico la proposta di legge.
Non si chiede l’impossibile, è il minimo per una società che si scandalizza, giustamente, dei maltrattamenti ai bambini, ma non sa nemmeno di essere responsabile stabilmente di una piccola grande vergogna che colpisce bambini innocenti privati per legge del necessario fin dalla nascita. Senza colpa.
Nessuna impunità per le madri con bambino: ma l’espiazione della pena sia compatibile con il principio della rieducazione e con i diritti del bambino.
Con l’indulto molte donne sono uscite e ora, dopo due mesi a Rebibbia ci sono 7 donne con bambino. Nessuna "indultata" è rientrata. Speriamo di no, ma se dovessero rientrare cercheremo con loro di attenuare i danni per la vita dei loro bambini e per loro stesse, per l’autostima, che è un passaggio decisivo anche per smettere di delinquere. È scoprire l’acqua fresca ricordare che tutto l’impianto del nostro Ordinamento Penitenziario e dell’esecuzione penale sarebbe finalizzato alla ri-socializzazione del condannato. Cambiando una legge diventa meno lontano il giorno in cui nessun bambino crescerà in carcere.
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