Il progetto Amato? Nel 2000 fu un flop
Cinzia Gubbini
Cinquemila lavoratori albanesi certificati, selezionati tra 30 mila. Sicuri, sicurissimi, lavoratori doc. Solo in 1.500 riuscirono ad entrare in Italia. Ma non su richiesta dei datori di lavoro: gli imprenditori che accettarono di pescare i loro futuri lavoratori da una lista creata all'estero furono sì e no una sessantina. Era l'epoca dei progetti mirati sulle liste nei consolati, quelle su cui oggi punta il ministro dell'interno Giuliano Amato per riformare la legge sull'immigrazione Bossi-Fini. «Apriremo liste in tutti i paesi di origine degli immigrati», ha assicurato il ministro. Come andrà a finire lo si sa già, basta avere buona memoria: un fallimento.
Correva l'anno 2000, vigeva la legge Turco-Napolitano e il «problema», allora, si chiamava ancora Albania. Le sfide su cui si scervellavano gli esperti erano, invece, sempre le stesse: come si fa a fermare l'ingresso di clandestini? Come si può favorire l'incontro legale tra lavoratori stranieri e imprenditori italiani? Si pensò così di tirare in ballo l'Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim), incaricata dal ministero del Lavoro di creare una lista di lavoratori albanesi selezionati da «offrire» agli imprenditori italiani. Niente di nuovo, per la verità: le liste presso i consolati a cui i candidati all'immigrazione in Italia potevano iscriversi specificando le proprie competenze, nella speranza che qualche imprenditore andasse a spulciarle, erano previste già dalla legge Turco-Napolitano. Anzi, a ben guardare, erano state inserite per la prima volta nientemeno che nella legge dell'86, e poi abolite con una circolare nell'89.
Alle prese con il primo vero flusso massiccio di immigrati che riuscivano a raggiungere le coste italiane sfuggendo a ogni controllo, l'Italia varò il «Progetto Albania». Costo: circa 700 milioni di lire. Le categorie di lavoratori da selezionare furono estratte dal rapporto annuale dell'Unioncamere: infermieri, cuochi, baristi, muratori, carpentieri, falegnami e così via. Per trentatré settori. Prerequisito per partecipare alle selezioni, la conoscenza dell'italiano. Tra giugno 2000 e ottobre 2001 arrivarono 28 mila domande da tutta l'Albania. La selezione fu spietata: su 12.229 lavoratori albanesi che effettivamente si presentarono all'intervista raggiunsero un esito positivo in 5.417. Il 56% fu scartato, fregato soprattutto dalla scarsa conoscenza dell'italiano. Insomma, alla fine di questa lunghissima trafila ci sarebbe da giurare che tra i selezionati ci fosse il re dei carpentieri.
Ma i padroncini del nord, verso cui mirava principalmente il progetto, non gradirono. A nulla valsero gli incontri mirati con gli imprenditori e l'interessamento del ministero. «Anche se si trattava di lavoratori garantiti, gli imprenditori in qualche modo non si fidavano. Forse non erano ancora pronti. Fatto sta che l'assunzione, soprattutto nelle piccole aziende, funziona in un altro modo: lavora per me uno straniero che mi dice di quanto è bravo suo fratello. Quella è la vera garanzia. Dopodiché, in via teorica, il sistema delle liste può funzionare. Ma non può essere l'unica strada: bisogna studiare strumenti flessibili e soprattutto un ventaglio molto vario di possibilità di ingresso legale. Solo in questo modo si può riuscire a superare un impianto repressivo, centri di permanenza compresi», spiega Ugo Melchionda, project manager dell'Oim.
Morale della favola: solo sessanta tra i lavoratori selezionati riuscirono ad arrivare in Italia su richiesta di un datore di lavoro. A quel punto, visto che la quota del decreto flussi di quell'anno per gli albanesi era di 1.500 persone, si pensò di dedicare tutto lo spazio a questi superselezionati. I quali, per venire nel nostro paese, dovettero pure «autosponsorizzarsi». Arrivarono grazie a un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro che la Turco-Napolitano già prevedeva. Insomma, quello strumento che oggi tutti chiedono a gran voce e che invece la bozza Amato neanche prevede perché considerato troppo avanzato.
D'altronde la proposta del ministro dell'interno - che pare sia stata partorita dopo quattro mesi di duro lavoro nelle stanze del Viminale - in realtà è, quasi dall'inizio alla fine, una riedizione del passato. Un brutto passato. «Il fatto è che si tratta di una proposta che non sposterà i numeri - osserva Sergio Briguglio, studioso delle politiche migratorie, da anni attento osservatore di quelle italiane - io sono per la complementarietà degli strumenti. Non ho niente contro le liste o la sponsorizzazione pubblica. Ma non basta. O si capisce che l'incrocio fra domanda e offerta avviene sul posto, sulla base della fiducia, e dunque si punta sulla ricerca di lavoro, dandogli grande spazio; oppure continuerai ad avere un'ampia fascia di aspiranti immigrati a cui lanci un messaggio: si entra solo clandestinamente».
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