di Stefano Anastasia
Indifferente all’andamento della criminalità (diminuita del 25% negli ultimi vent’anni), la crescita della detenzione non sembra incidere sulla recidiva, rimasta sostanzialmente costante. Con il risultato – secondo Sue Urahn, managing director del Pew - che i tagli di spesa pubblica sono fatti in settori nei quali effetti dannosi a lungo termine sono certi (istruzione e assistenza sanitaria), e non dove – nel sistema penitenziario, appunto – potrebbero essere fatti con buoni o addirittura migliori risultati in termini di resa del servizio.
L’indicazione dei ricercatori del Pew è per un investimento nelle alternative alla detenzione, che costano meno di un decimo per persona (un detenuto costa mediamente 29mila dollari l’anno; una persona in libertà vigilata o messa alla prova costa tra i 1250 e i 2750 dollari l’anno), e che invece sono destinatarie solo di un decimo delle risorse del sistema penitenziario, nonostante abbiano sotto controllo più del doppio delle persone detenute (più di 5 milioni di persone contro 2.200.000).
Non diversamente dalle indicazioni del Pew Center on the States, la Commissione tecnica per la finanza pubblica istituita dal negletto Governo Prodi il 12 giugno dello scorso anno consegnava al subentrato Ministro Tremonti un Rapporto per la revisione della spesa pubblica in cui, «nell’ambito di una opportuna riflessione sull’attuale conformazione del sistema penale italiano» si raccomandava «di valutare la possibilità di un più intenso ricorso a forme di detenzione alternative alla reclusione». Nel Rapporto intermedio, reso pubblico dal Ministro Padoa Schioppa a dicembre del 2007, si sosteneva che «il ricorso a servizi e strutture di sostegno alle misure alternative e sostitutive alla detenzione, ampiamente diffuso in altri paesi europei …, oltre a garantire un percorso di riabilitazione del detenuto in grado di fornire una più incisiva forma di inclusione della persona nel tessuto sociale, sarebbe in grado di consentire un importante risparmio di risorse, essendo ridotto, rispetto a quello carcerario, il rapporto di agenti e detenuti».
Del resto, uno studio dell’Osservatorio delle misure alternative istituito presso il Ministero della giustizia dice che a sette anni dalla archiviazione della misura alternativa alla detenzione, l’81% dei beneficiari non risulta recidivo, mentre nello stesso periodo è rientrato in carcere il 68,45% dei condannati che vi avevano finito di scontare la pena senza poter accedere a misure alternative alla detenzione. Non male, quanto a evidenza scientifica e implicazioni di politica della sicurezza. Ma il Governo fa il contrario e minaccia il carcere per ogni dove, dai giornalisti, ai molestatori, agli indagati per violenza sessuale anche in assenza dei requisiti ordinari per la custodia cautelare in carcere (ai palazzinari no!); e spende i pochi quattrini che ha per l’improbabile costruzione di nuove strutture detentive, anche sottraendo ai detenuti e alle loro famiglie i fondi che loro stessi hanno versato in una apposita Cassa per la loro assistenza e per il proprio reinserimento.
Povero Berlusconi, che annunciava l’ultimo decreto-legge sulla sicurezza farfugliando che i reati però erano in calo: finirà vittima delle sue stesse macchinazioni. La prima legge delle politiche della sicurezza è che si tratta di un atou di parte: se si contende su quello vince la destra (e Rutelli e Veltroni dovrebbero ormai saperlo bene). La seconda legge delle politiche della sicurezza è che con il populismo penale si vince una elezione sola, non due di seguito. Quanti malcapitati manderanno in galera - Berlusconi e Alemanno - prima di capirlo?
(09/03/2009)
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