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Migranti, obblighi di protezione e diritto internazionale del mare, meltingpot.org, 20/07/07

Migranti, obblighi di protezione e diritto internazionale del mare

di Fulvio Vassallo Paleologo

Le cronache di questi giorni ci confermano infatti il sostanziale “fallimento” dell’operazione Nautilus II organizzata dall’agenzia europea Frontex, anche per la mancanza di regole di ingaggio certe e condivise da tutti i paesi partecipanti, oltre che per il rifiuto della Libia di partecipare al pattugliamento congiunto delle proprie coste. In ogni caso, in assenza di interventi capaci di smantellare la rete criminale ed istituzionale che gestisce l’immigrazione clandestina nei paesi del Nord-africa, le uniche vittime di questi interventi sono i migranti, respinti verso paesi che non riconoscono i loro diritti fondamentali, il diritto di asilo e neppure il diritto all’unità familiare. L’accentuarsi della spirale repressiva accresce le fortune dei trafficanti ed il loro potere di ricatto. Non stupisce in questo quadro l’allarme dei magistrati che lamentano i limiti dei loro poteri di indagine nel contrasto delle organizzazioni criminali che dai paesi di transito gestiscono indisturbati il traffico e la tratta, fenomeni comunque da non confondere.

L’aspetto più preoccupante delle politiche comunitarie e nazionali in materia di immigrazione ed asilo è dunque la stipula di accordi di cooperazione, o altre volte di intese operative a livello di polizia, nella “lotta” all’immigrazione clandestina, da ultimo con paesi di transito come la Mauritania ed il Ghana. L’approccio dominante è sempre quello della “condizionalità migratoria”: in cambio di aiuti economici e di limitate possibilità di ingresso legale per i cittadini di quei paesi, si dovrebbe ottenere un maggiore impegno nell’arresto e nella successiva espulsione, o nel respingimento verso altri paesi dei migranti in transito, molti dei quali provenienti da lontano, spesso potenziali richiedenti asilo. Quanto avviene in queste settimane nel Canale di Sicilia è frutto della visione esclusivamente repressiva con la quale l’Unione Europea e l’Italia hanno affrontato il problema delle migrazioni nel Mediterraneo.

Una impostazione di chiusura indiscriminata delle frontiere marittime che si è scaricata immediatamente sui soggetti più deboli, i potenziali richiedenti asilo, le donne, i minori, le vittime di tortura, malgrado l’impegno di salvataggio delle unità della nostra marina militare.

Negli anni passati l’Italia è stata all’avanguardia in Europa nella pratica delle espulsioni collettive verso i cd. paesi di transito, come la Libia e l’Egitto, paesi dai quali numerosi migranti, tra i quali molti potenziali richiedenti asilo, sono stati respinti verso quegli stessi stati, come l’Eritrea, il Sudan, la Nigeria, il Ghana, il Mali, ma anche il Bangladesh, il Pakistan o lo Sri Lanka, dai quali erano fuggiti. Solo a partire dal marzo del 2006 il ministro dell’interno Pisanu ancora in carica per poche settimane aveva sospeso le deportazioni dai centri di detenzione italiani, Crotone in particolare, verso la Libia, mentre era aperta una indagine del Parlamento Europeo per accertare le espulsioni collettive effettuate da Lampedusa verso la Libia a partire dall’ottobre del 2004.

Già nell’agosto del 2006 L’Asgi , associazione studi giuridici sull’immigrazione, esprimeva la propria ferma contrarietà e preoccupazione all’annuncio dato dal nuovo Governo italiano sull’avvio di pattugliamenti europei nel Mediterraneo, non essendoci garanzia alcuna che essi sarebbero stati di aiuto e non di respingimento dei migranti e dei richiedenti asilo. Come si legge in un comunicato di questa associazione “ tali pattugliamenti, da attuarsi con unità navali congiunte tra più paesi europei, appaiono finalizzati a contrastare l’arrivo di cittadini stranieri in fuga sulle cosiddette “carrette del mare” verso le coste italiane.
A causa della perdurante scelta politica di sostanziale chiusura di effettivi canali di ingresso regolare nell’Unione Europea, si assiste ogni anno ad un progressivo incremento degli ingressi irregolari realizzati con natanti sempre più piccoli ed insicuri, per sfuggire ai crescenti controlli. Le grandi organizzazioni criminali che gestiscono il traffico trovano così modo di arricchirsi sempre di più, rimanendo al riparo e limitandosi a “vendere” il viaggio, comprensivo di imbarcazione e rifornimenti, a migranti che non dispongono di altro modo di fare ingresso nell’Unione Europea. L’inasprimento dei controlli, ben lungi dallo scoraggiare il fenomeno dell’immigrazione irregolare lo alimenta e le conseguenze di tale circuito vizioso ricadono solo sulle vittime di tale traffico con esiti sempre più tragici.
Inasprire i controlli in mare allo scopo di scoraggiare gli arrivi rappresenta quindi un grave errore, foriero di nuove tragedie. Particolarmente grave appare l’annuncio, dato dal Governo italiano, di volere procedere ad pattugliamento al limite dei confini territoriali marittimi con la Libia allo scopo di contrastare l’uscita delle imbarcazioni dai porti e restituire i migranti stessi alle autorità libiche. La Libia è un paese che non da’ alcuna garanzia di tutela dei diritti fondamentali dell’Uomo ed in particolare dei potenziali richiedenti asilo, non avendo, come è noto, ad oggi, neppure ratificato la Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati.
Attuare con la Libia accordi di rimpatrio o altre forme di collaborazione, ivi compresi accordi di polizia mai sottoposti all’approvazione del Parlamento, rappresenta pertanto una gravissima violazione delle normative internazionali, comunitarie e di diritto interno.
L’Italia e l’Unione Europea devono accettare il fenomeno strutturale dell’immigrazione, governandolo senza pretendere di contrastarlo, consentendo un regolare accesso al territorio e al mercato del lavoro e garantendo altresì in maniera effettiva l’accesso alla procedura di asilo.
L’Asgi sollecita l’introduzione al più presto nel nostro ordinamento dell’istituto dell’ingresso per “ricerca nel mercato di lavoro” consentendo altresì a coloro che già si trovano irregolarmente, sul territorio italiano di regolarizzare la propria posizione dimostrando di avere un’occupazione (così combattendo, per davvero, il lavoro nero).
L’Asgi, nel ricordare preliminarmente che qualsiasi accordo internazionale che incida su diritti fondamentali della persona, quali sono senza dubbio gli accordi di collaborazione in materia di immigrazione, debbono essere votati dalla Camere, nel rispetto dell’art. 80 della Costituzione, non essendo affatto sufficiente una mera nota informativa, richiede al Governo italiano di sospendere ogni avventato programma di contrasto in mare dell’arrivo dei migranti ed in particolare ogni forma di collaborazione con la Libia finalizzata al contrasto della immigrazione irregolare e di potenziare invece gli interventi di soccorso in mare dei cittadini stranieri in fuga verso l’Europa.”

Nel corso del 2006 e ancora quest’anno, l’Italia ha invece continuato la sua politica “sommersa” con Gheddafi e con gli altri paesi nord-africani, dal vertice di Tripoli dello scorso anno, fino al viaggio di D’Alema, sempre a Tunisi e a Tripoli, lo scorso aprile. Nessun accordo ufficiale, ma una politica di riammissione gestita a livello di alti funzionari di polizia, ufficiali di collegamento e contatti diplomatici informali, che determinano puntualmente, ad ogni situazione di crisi, ritardi nei soccorsi a mare e una totale incertezza sulla sorte dei migranti, una parte dei quali sicuramente proveniente da paesi dai quali può essere fatta valere una richiesta di asilo, come la Somalia o l’Eritrea, ma inesorabilmente abbandonati al loro destino di clandestini, se non di naufraghi, quando non respinti direttamente verso la Libia.

Secondo numerose testimonianze, raccolte da operatori umanitari e giornalisti, consultabili nei siti di Migreurop (Parigi), di Picum ( Bruxelles), di Borderline Europe ( Berlino) e di Fortress Europe (Roma), confermate da rapporti di agenzie internazionali come Amnesty o Human Rights Watch (HRW), facilmente reperibili nei siti di queste organizzazioni, numerosi paesi europei impegnati nelle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina non rispettano neppure le regole procedurali vincolanti dei regolamenti comunitari.

Secondo l’art. 13 del Regolamento Comunitario 562 del 2006 entrato in vigore il successivo 13 ottobre in base al quale sono dettate regole precise per il respingimento in frontiera, regole che non possono essere applicate in alto mare:
Sono respinti dal territorio degli Stati membri i cittadini di paesi terzi che non soddisfino tutte le condizioni d’ingresso previste dall’articolo 5, paragrafo 1, e non rientrino nelle categorie di persone di cui all’articolo 5, paragrafo 4. Ciò non pregiudica l’applicazione di disposizioni particolari relative al diritto d’asilo e alla protezione internazionale o al rilascio di visti per soggiorno di lunga durata./2. Il respingimento può essere disposto solo con un provvedimento motivato che ne indichi le ragioni precise. Il provvedimento è adottato da un’autorità competente secondo la legislazione nazionale ed è d’applicazione immediata. Il provvedimento motivato indicante le ragioni precise del respingimento è notificato a mezzo del modello uniforme di cui all’allegato V, parte B, compilato dall’autorità che, secondo la legislazione nazionale, è competente a disporre il respingimento. Il modello uniforme compilato è consegnato al cittadino di paese terzo interessato, il quale accusa ricevuta del provvedimento a mezzo del medesimo modello uniforme./3. Le persone respinte hanno il diritto di presentare ricorso. I ricorsi sono disciplinati conformemente alla legislazione nazionale. Al cittadino di paese terzo sono altresì consegnate indicazioni scritte riguardanti punti di contatto in grado di fornire informazioni su rappresentanti competenti ad agire per conto del cittadino di paese terzo a norma della legislazione nazionale. L’avvio del procedimento di impugnazione non ha effetto sospensivo sul provvedimento di respingimento. Fatto salvo qualsiasi indennizzo concesso a norma della legislazione nazionale, il cittadino di paese terzo interessato ha diritto a che lo Stato membro che ha proceduto al respingimento rettifichi il timbro di ingresso annullato e tutti gli altri annullamenti o aggiunte effettuati, se in esito al ricorso il provvedimento di respingimento risulta infondato./4. Le guardie di frontiera vigilano affinché un cittadino di paese terzo oggetto di un provvedimento di respingimento non entri nel territorio dello Stato membro interessato./5. Gli Stati membri raccolgono statistiche sul numero di persone respinte, i motivi del respingimento, la cittadinanza delle persone respinte e il tipo di frontiera (terrestre, aerea, marittima) alla quale sono state respinte. Gli Stati membri trasmettono annualmente tali statistiche alla Commissione. La Commissione pubblica ogni due anni una compilazione delle statistiche fornite dagli Stati membri./6. Le modalità del respingimento figurano nell’allegato V, parte A.

Se queste disposizioni non sono applicabili a mare, quali sono le regole di ingaggio e le garanzie procedurali durante le operazioni di respingimento, spesso di respingimento collettivo, praticato ai limiti delle acque territoriali dei paesi mediterranei che appartengono all’Unione Europea?

In occasione della vicenda Cap Anamur e poi in successive occasioni, sino a pochi giorni fa, anche per effetto delle diverse interpretazioni delle normative internazionali da parte degli stati coinvolti nel salvataggio di migranti in procinto di annegare, sono state violate le norme del diritto internazionale del mare che impongono la salvaguardia assoluta della vita umana a mare. Anche durante la più recente operazione Nautilus nel Canale di Sicilia, iniziata alla fine di giugno, non sono mancate le differenze di vedute tra i diversi governi dei paesi che vi partecipavano, circa la sorte dei naufraghi salvati da mezzi civili, e sono purtroppo continuate le stragi di migranti.

Le misure adottate a livello europeo, e soprattutto quelle disposte da agenzie tecnico operative come Frontex, o da gruppi riservati di coordinamento, a livello di forze di polizia o di rappresentanze diplomatiche non possono risultare in contrasto con il diritto internazionale del mare universalmente riconosciuto.

In ogni caso il diritto derivante dalle Convenzioni internazionali sottoscritte e ratificate dall’Italia pone precisi limiti alle decisioni politiche ed obblighi di protezione alle autorità che operano nelle acque del Mediterraneo o nei paesi di transito. In base alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 , n.3 ( consultabile nella Gazzetta Ufficiale n.132 del 10 giugno del 2003) gli obblighi di fonte internazionale costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato. In base all’art. 11 della nostra Costituzione il diritto internazionale generalmente riconosciuto e le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro paese, come le norme comunitarie vincolanti, costituiscono parte integrante del nostro ordinamento giuridico e non possono essere derogate da scelte discrezionali dell’autorità politica o amministrativa. Questa previsione rafforza il dettato dell’art. 10 della nostra Costituzione, che peraltro riconosce il diritto di asilo in termini assai più ampi della Convenzione di Ginevra.

La Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982 (Unclos) costituisce la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 311 dispone, infatti, che sono salvi soltanto gli altri accordi internazionali compatibili con la Convenzione stessa. Due o più Stati - continua l’art. 311 della Convenzione sul diritto del mare - possono concludere accordi che modifichino o sospendano l’applicazione delle disposizioni della Convenzione e che si applichino unicamente alle loro reciproche relazioni, solo a condizione che questi accordi non rechino pregiudizio ad una delle disposizioni della Convenzione, la cui mancata osservanza sarebbe incompatibile con la realizzazione del suo oggetto e del suo scopo e, parimenti, a condizione che questi accordi non pregiudichino l’applicazione dei principi fondamentali della Convenzione e non pregiudichino anche il godimento dei diritti o l’adempimento degli obblighi degli altri Stati derivanti dalla Convenzione stessa. Questo principio di compatibilità non entra in discussione qualora la medesima Convenzione di Montego Bay richiami e confermi espressamente accordi internazionali in vigore o ne auspichi la stipulazione con riferimento a specifici settori.

Tra le norme che non possono essere oggetto di deroga da parte degli Stati anche mediante accordi con altri Stati va richiamato anzitutto l’art. 98 dell’Unclos, perché esso costituisce l’applicazione del principio fondamentale ed elementare della solidarietà . Ogni Stato - si legge nel citato art. 98 - impone che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nei limiti del possibile e senza che la nave, l’equipaggio ed i passeggeri corrano gravi rischi: a) presti assistenza a chiunque si trovi in pericolo in mare; b) vada il più presto possibile in soccorso delle persone in difficoltà se viene informato che persone in difficoltà hanno bisogno d’assistenza, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; c) presti soccorso, in caso di collisione, all’altra nave, al suo equipaggio ed ai passeggeri e, nella misura del possibile, indichi all’altra nave il nome ed il porto d’iscrizione e il primo porto del suo approdo. Il secondo comma prevede che gli Stati costieri creino e curino il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e di salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea e, se del caso, collaborino a questo fine con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

Varie convenzioni internazionali, tutte in vigore in Italia insieme all’Unclos, costituiscono un completamento della norma ora citata.

In primo luogo, l’art. 10 della Convenzione del 1989 sul soccorso in mare così dispone: Ogni comandante è obbligato, nella misura in cui ciò non crei pericolo grave per la sua nave e le persone a bordo, di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Gli Stati adotteranno tutte le misure necessarie per far osservare tale obbligo.

La Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 ( Convenzione Solas) impone al comandante di una nave “ che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.

La terza Convenzione internazionale che viene in considerazione riguarda anch’essa la ricerca ed il salvataggio marittimo. In base alla Convenzione on Marittime Search and Rescue Sar 1979 l’autorità responsabile per l’applicazione della convenzione è il Ministro dei trasporti mentre l’organizzazione centrale e periferica è affidata al Comando generale del Corpo delle Capitanerie di porto ed ad relative strutture periferiche. La Convenzione Sar si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente con le frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti.

La Convenzione Sar impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare “regardlerss of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found”, senza distinguere a seconda della nazionalità o dello stato giuridico, stabilendo altresì, oltre l’obbligo della prima assistenza anche il dovere di sbarcare i naufraghi in un “luogo sicuro”.

I poteri-doveri di intervento e coordinamento da parte degli apparati di un singolo Stato nell’area di competenza non escludono, sulla base di tutte le norme più sopra elencate, che unità navali di diversa bandiera possano iniziare il soccorso quando l’imminenza del pericolo per le vite umane lo richieda. Occorre però garantire che dopo l’espletamento delle operazioni di salvataggio i migranti siano ricondotti in un porto sicuro.

Soprattutto nei rapporti con la Tunisia e la Libia imangono ancora da definire le regole d’ingaggio delle marine nel caso vengano salvati immigrati in difficoltà e questo può comportare gravi ritardi nelle operazioni di salvataggio, oltre che respingimenti collettivi verso i porti di partenza di paesi che non riconoscono (o non siano nelle condizioni di applicare effettivamente, come nel caso della Tunisia) la Convenzione di Ginevra o altre norme internazionali che tutelano i diritti della persona umana, con particolare riferimento ai soggetti più vulnerabili ( donne, minori, vittime di tortura).

In ogni caso, la doverosa cooperazione dello Stato coinvolto nell’operazione di soccorso in mare, comprende l’obbligo dello sbarco dei naufraghi in un logo sicuro sulla base del giudizio del comandante dell’unità che porta a compimento l’intervento di salvataggio, prescindendo dal potere dello Stato stesso di perseguire i presunti favoreggiatori (comandante ed equipaggio) o di adottare verso i clandestini (ma in tutta sicurezza) i provvedimenti di espulsione o di respingimento previsti dalla legge.

Una particolare considerazione merita la problematica relativa a ciò che debba intendersi per conduzione della persona salvata in luogo sicuro. Infatti è dal momento dell’arrivo in tale luogo che cessano gli obblighi internazionali (e nazionali) relativamente alle operazioni di salvataggio, che pertanto non si esauriscono con le prime cure mediche o con la soddisfazione degli altri più immediati bisogni (alimentazione etc.). Con l’entrata in vigore (luglio 2006) degli emendamenti all’annesso della Convenzione Sar 1979 (luglio 2006) e alla Convenzione Solas 1974 (e successivi protocolli) e con le linee guida - adottate in sede IMO lo stesso giorno di approvazione degli emendamenti alle convenzioni e protocolli - viene fatta maggiore chiarezza sul concetto di place of safety e sul fatto che la nave soccorritrice è un luogo puramente provvisorio di salvataggio, il cui raggiungimento non coincide con il momento terminale delle operazioni di soccorso.
Le “linee guida” insistono particolarmente sul ruolo attivo che deve assumere lo Stato costiero nel liberare la nave soccorritrice dal peso non indifferente di gestire a bordo le persone salvate.
Secondo le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare adottate nel maggio del 2004 dal Comitato marittimo per la sicurezza, che emendano le convenzioni Sar e Solas, “il governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro o di assicurare che tale luogo venga fornito”. Secondo le stesse linee guida “un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse e dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie ( come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte; e possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale.
Sono quindi i naufraghi che possono indicare il luogo di sbarco sicuro, e comunicarle al comandante della nave sulla quale si trovano, e non le decisioni politiche o delle autorità di polizia. Si sottolinea in particolare come “ lo sbarco di richiedenti asilo e rifugiati recuperati in mare, in territori nei quali la loro vita e la loro libertà sarebbero minacciate, dovrebbe essere evitato”. Si aggiunge infine che “ ogni operazione e procedura come l’identificazione e la definizione dello status delle persone soccorse, che vada oltre la fornitura di assistenza alle persone in pericolo, non dovrebbe essere consentita laddove ostacoli la fornitura di tale assistenza o ritardi oltremisura lo sbarco”.

La questione più importante – rileva l’Unhcr - è l’evitare concretamente (cioè in tutti gli Stati comunitari ) che il richiedente asilo venga inviato fuori dello spazio regolato da Dublino II, senza che la sua richiesta sia stata esaminata.
Secondo l’art. 33 della Convenzione di Ginevra nessuno può essere espulso o respinto verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione,nazionalità,appartenenza ad un determinato gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.
L’Unhcr evidenzia anche la necessità di un sistema più efficace per assicurare i ricongiungimenti familiari con una definizione più estesa della nozione di membro di una famiglia.

Contro le organizzazioni che gestiscono il traffico dei migranti va riaffermato il principio di legalità e strumenti di monitoraggio delle attività delle polizie locali. Come è confermato da numerose testimonianze in molti paesi di transito la corruzione della polizia e le organizzazioni criminali dei trafficanti di uomini formano un sistema unico che stritola migliaia di vite e che risulta invisibile soltanto ai governanti europei che con gli stati di polizia del nord-africa non esitano a concludere accordi di riammissione che sulla carta richiamano i diritti fondamentali ed il diritto di asilo, ma che nella pratica si riducono a pratiche di deportazione e di schiavizzazione indegne di un qualsiasi paese che voglia continuare a definirsi democratico.

Di fronte alla composizione mista dei flussi migratori occorre un regolamento europeo che superi la Convenzione di Dublino, come richiesto anche dalla Relazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio, nella quale si rilevano tutti i punti critici della applicazione del vigente Regolamento Dublino II n.343 del 2003.
Piuttosto che applicare burocraticamente questo regolamento si sottolinea la necessità della massima estensione delle clausole umanitarie e di sovranità, anche in modo da derogare a quanto previsto dal regolamento quando occorre garantire la salvaguardia della vita umana a mare e la protezione dei soggetti più vulnerabili come i richiedenti asilo, le donne ed i minori. Per garantire interventi di salvataggio più immediati ed efficaci si devono depenalizzare al più presto gli interventi di salvataggio a mare da parte delle imbarcazioni non militari. Le missioni Frontex devono essere rimodulate nella prospettiva della salvaguardia assoluta della vita umana e del diritto di asilo.

Le operazioni di pattugliamento congiunto gestite dall’agenzia Frontex devono essere bloccate o riconvertite nella prospettiva della salvaguardia assoluta della vita umana e del diritto di asilo. Devono essere evitate pratiche di polizia concretamente riconducibili al divieto di espulsioni collettive. Vanno interrotti immediatamente i finanziamenti concessi dai governi europei ai paesi di transito per mantenere centri di raccolta dei migranti irregolari, che assumono spesso, come rilevato in Libia da Human Rights Watch e da una delegazione del Parlamento europeo, il carattere di veri e propri lager. Come vanno interrotti i finanziamenti europei dei voli con i quali gli stati di transitano restituiscono molti potenziali richiedenti asilo alla polizia dei paesi, come l’Eritrea, dai quali questi sono fuggiti.

Gli accordi di riammissione con i paesi nordafricani sono basati sul presupposto che questi paesi, ad eccezione della Libia, hanno aderito alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Quando poi si va a considerare la dimensione effettiva del diritto di asilo in questi stati si verifica come il diritto di asilo venga riconosciuti in poche centinaia di casi. Non si può ritenere sufficiente l’adesione formale alla Convenzione di Ginevra, se poi i singoli stati si comportano in modo da violare i principi essenziali di quella convenzione, e neppure consentono il tempestivo intervento dei funzionari dell’Acnur.

In questo quadro, può costituire la premessa per gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona il coinvolgimento nelle pattuglie Frontex di unità navali di paesi che non rispettano i diritti dei richiedenti asilo, come Malta, la Tunisia e la Libia. Non si dovranno più verificare espulsioni o respingimenti verso paesi che non garantiscono i diritti fondamentali della persona umana, a partire dal diritto di asilo.

Piuttosto che finanziare campi di detenzione amministrativa nei paesi di transito, strutture che diventano luoghi di abusi e di traffici di ogni tipo, occorre istituire, negli stessi paesi di transito, veri e propri centri di accoglienza per i richiedenti asilo. Bisogna estendere l’istituto dell’asilo extraterritoriale, dare quindi la effettiva possibilità di presentare una richiesta di asilo nei paesi di transito e di garantire un rigoroso rispetto del principio di non refoulement previsto dalla Convenzione di Ginevra.

Deve essere riconsiderata dai Parlamenti nazionali la materia degli accordi di riammissione, sia perché in contrasto con le normative internazionali ed interne in materia di protezione dei diritti fondamentali della persona migrante, sia perché le azioni di polizia attuate sulla base di tali accordi sono sottratte ad ogni effettivo controllo giurisdizionale. Gli accordi già stipulati con i paesi di transito e di provenienza vanno revocati o comunque rinegoziati, ed eventuali accordi futuri, comunque discussi ed approvati dalle assemblee parlamentari, dovranno essere strettamente conformi alle norme internazionali e costituzionali sulla tutela dei diritti fondamentali della persona, a partire dalla Carta di Nizza, che vieta le espulsioni collettive, e dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’uomo, che prevede, in caso di violazione, mezzi immediati di ricorso davanti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

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