L’indulto, si anzi forse, purchè lo si precluda a gente abituata a delinquere, ai professionisti del crimine, ai sequestratori, ai trafficanti di droga, ai pedofili, ai mafiosi. Mentre ben venga l’indulto ai mafiosetti di serie c. Si ma allora si deve dimettere il capogruppo ds in commissione giustizia, a cui è sfuggita questa assurdità, questa leggerezza. A questo punto è necessario far vedere che si è duri ed integerrimi: si deve scendere a due anni. Tre sono troppi. La sicurezza del Paese sarebbe a rischio. Forse sarebbe meglio l’indultino, versione creativa e innovativa dell’indulto, che nonostante il nomignolo favorirebbe la scarcerazione, a dire dei proponenti, di più detenuti dell’indulto. La pena non la si estingue ma la si sospende. Ad un patto, ossia che durante la sospensione di tre anni il detenuto stia fermo a casa, faccia il buono e si rechi più volte al giorno dalla polizia. Nel frattempo come campa? Ma allora ben venga l’amnistia. Giammai, altrimenti che fine farebbero i processi a Berlusconi, Previti e Dell’Utri?
Il balletto di queste ultime settimane, il dibattito pieno di timidezze e riserve, ha ridotto e svilito la stessa idea di atto di clemenza, per sua natura generale e universale, ad un pasticcio, ad un gioco al ribasso, con il retropensiero evidente di molti gruppi parlamentari di mettersi nelle condizioni di dare la colpa all’altro qualunque cosa accada, passi o no la clemenza, in una delle sue possibili forme originarie o originali.Un gesto di clemenza è tale se non fa figli e figliastri, se taglia a tutti un pezzo di galera. Il punto di partenza, indulto o sospensione della pena che sia, deve essere il seguente: la riduzione di parte della detenzione deve valere per tutti, a prescindere dalla durata della carcerazione. Non si può temere la riduzione di tre anni per una persona condannata a venti o ventiquattro. Clemenza è tale se non esclude nessuno. Altrimenti si trasforma in premio.
L’indulto o la sospensione della pena, affinché abbiano reale portata deflativa, non devono avere preclusioni soggettive e oggettive. Escludere, come è previsto, i delinquenti abituali, professionali o per tendenza, significa ridurne di molto l’applicazione. In carcere si va per i cosiddetti dieci comandamenti a cui si affida la nostra giustizia penale. I tossicodipendenti, gli scippatori, molti piccoli criminali sono plurirecidivi. Vanno in galera sempre per la stessa ragione, spesso sono etichettati come delinquenti abituali. E se si considera che i soli tossicodipendenti sono il 27% circa dei detenuti, si può intuire quanto tali preclusioni siano discriminatorie de depotenzino la portata di un qualsiasi provvedimento di clemenza o di sospensione della pena .
Al 31 ottobre scorso, risultavano detenute 56.733 persone contro una capienza regolamentare di 41.730. Ben 15 mila persone in più rispetto ai posti letto a disposizione. Il 31 dicembre del 2001 erano detenute nelle carceri italiane 55.275 persone. Nel 2000, anno in cui è partita la prima campagna giubilare per l’amnistia e l’indulto, i detenuti erano fra i 53 e i 54 mila, mentre all’inizio del 1999 49 mila. La crescita è stata in soli tre anni di 7 mila unità. Rispetto a questi numeri, ad un sistema penale governato da un codice con settant’anni di età, con pene edittali fra le più lunghe di Europa, alla sopravvivenza della pena dell’ergastolo che trascina tutte le altre verso l’alto, oggi un atto di clemenza pieno è un atto di giustizia sostanziale. Ecco perchè la sospensione della pena è insoddisfacente, perché piena di limiti ed esclusioni, con passi indietro rispetto all’attuale impianto delle misure alternative, che ne condizionano fortemente gli esiti deflativi finali. Durante la fase della sospensione della esecuzione della pena la magistratura di sorveglianza è previsto che possa imporre una serie di prescrizioni, alcune delle quali più rigide di quelle ordinariamente previsti per gli affidati o i semiliberi. Inoltre vi è una ampia ed esagerata possibilità di revoca della sospensione della pena, finanche se si riporta una condanna a pena detentiva non inferiore a sei mesi per delitto non colposo. In questo caso la pena andrebbe a ricominciare daccapo e l’effetto deflativo verrebbe del tutto compromesso. La sospensione della esecuzione della pena è di fatto una misura alternativa obbligatoria, che non si sottrae alle ambiguità e alle contraddizioni di tutto il sistema delle misure alternative, al binomio premio-punizione che le governa. Altrimenti non si spiegherebbe il perché vengano esclusi coloro che sono sottoposti al provvedimento di sorveglianza particolare di cui all’articolo 14 dell’ordinamento penitenziario, ossia ai detenuti definiti pericolosi dall’amministrazione penitenziaria.
Perché un provvedimento di clemenza abbia senso oggi deve consentire di riportare la capienza delle carceri entro i limiti regolamentari. Ossia deve essere capace di far uscire più di 15 mila persone. Circa 18 mila sono appunto i detenuti che hanno un residuo pena inferiore ai 3 anni, il 61% di coloro che sono stati condannati in via definitiva. Questo deve essere l’obiettivo di un provvedimento di clemenza, senza limiti oggettivi o soggettivi.Amnistia e indulto sono fra loro intimamente correlate. L’indulto funziona se c’è contestualmente un provvedimento di amnistia. Oggi in via straordinaria bisogna intervenire sia sul sovraffollamento carcerario sia sul sovraffollamento giudiziario. Da un lato bisogna intervenire sulle pene, dall’altro sui reati. In tal modo va evitato il rischio che alla riduzione di pena non si accompagni la contestuale estinzione dei reati. Una persona condannata a meno di tre anni di carcere per un fatto compiuto prima del 30 giugno 2001, il cui processo non si è ancora concluso alla data di entrata in vigore della legge, non sconterà la pena detentiva ma subirà comunque un inutile processo che si svolgerà altrettanto inutilmente in quanto la pena andrà estinta. Con l’amnistia decine di migliaia di cause pendenti per piccoli reati potrebbero estinguersi consentendo alle procure e ai tribunali di concentrarsi su questioni di maggiore spessore criminale.Infine, il 29 gennaio sarà pubblico il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura relativo a visite ispettive di sette e tre anni fa effettuate negli istituti di pena e nelle stazioni di polizia italiane. A parte lo scandalo di un Paese incapace di dare risposte rapide ed effettive ad organismi ispettivi internazionali, c’è da fare una considerazione di merito. La questione del sovraffollamento era presente sin dal 1996, anno della visita ad hoc a San Vittore. E il Comitato la ha ritenuta così grave tanto da giustificare una possibile sanzione per il governo italiano: l’accusa è diretta, ossia le carceri sovraffollate sono causa di trattamenti inumani e degradanti. La clemenza piena e incondizionata sarebbe finalmente una risposta agli ispettori europei.
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