I Casi

Un avatar kafkiano

di Stefano Anastasia

Olindo e Rosa, a sentire la magistrata di sorveglianza di Reggio Emilia, devono potersi incontrare almeno una volta ogni quindici giorni, e l’Amministrazione penitenziaria deve assicurare che ciò avvenga, portando l’uno a colloquio dall’altra (o viceversa) con gli ordinari mezzi di traduzione dei detenuti.Anche gli autori dei delitti più efferati, nel rispetto della Costituzione, della legge, del regolamento penitenziario e di una infinità di raccomandazioni degli organismi internazionali, hanno diritto di coltivare le loro relazioni familiari e affettive. Figuriamoci se questa previsione possa essere negata a Silvia e Rinaldo, in carcere da un paio d’anni per spaccio di stupefacenti, e dunque, senza aver ammazzato nessuno, e che per di più hanno la fortuna di essere alloggiati in due istituti limitrofi, non l’uno a Parma e l’altra a Vercelli, come la coppia più famosa dei penitenziari d’Italia.
E invece no: nonostante l’autorizzazione del Pm che, a chiusura delle indagini preliminari, garantiva ai due la possibilità di incontrarsi le quattro volte mensili previste da regolamento, da allora a oggi, in un anno e mezzo, Silvia e Rinaldo hanno potuto vedersi solo cinque volte, una volta ogni tre mesi.
Abbiamo partecipato anche noi, in anni ormai lontani, alla diffusione della vulgata che vuole ogni carcere come un mondo a sé, e sarebbe facile prendersela con il direttore del carcere di lui o con il direttore del carcere di lei: chi dei due impedisce a Silvia e Rinaldo di vedersi quattro volte al mese e di dar seguito a uno dei sacri principi del “trattamento penitenziario”, il mantenimento delle relazioni familiari?
E invece (ancora) no: non è colpa della balcanizzazione degli Istituti penitenziari. C’è un potere centrale, occhiuto e severo, che ha deciso così: Silvia e Rinaldo non possono vedersi per la surreale ragione che «la normativa vigente non contempla il diritto di un detenuto a traduzioni e/o trasferimenti provvisori per l’effettuazione di colloqui», e se la normativa non contempla, l’amministrazione non dispone. Lasciamo perdere questa infantile concezione del potere discrezionale delle amministrazioni pubbliche, che possono - secondo l’estensore della nota di risposta alla richiesta di chiarimento della direzione di uno dei due istituti - soltanto fare ciò a cui sono obbligati dalla legge: giustamente l’esperta direttrice del carcere di lei «fa peraltro presente che in analoghi casi il nulla osta alla traduzione … è stato concesso senza problemi di sorta».
Olindo e Rosa hanno trovato un giudice a Reggio Emilia; Silvia e Rinaldo sono ancora alle prese con un avatar kafkiano, asserragliato tra codici e pandette nei corridoi bui dell’Amministrazione penitenziaria.