I Casi

Ripristino della legalità

di Stefano Anastasia

Giacomo è uno che sa il fatto suo: il 17 dicembre, nel Palazzo di giustizia di Udine si discuterà il suo ricorso contro il provvedimento disciplinare che gli è stato inflitto a luglio, quando protestò con la direzione del carcere di Tolmezzo perché nella sua cella di nove metri quadri era stato appena elevato il terzo piano a castello. E giù a spiegare (come se fosse un militante di Antigone) che la Corte europea dei diritti umani aveva appena deciso che tre metri quadri a testa sono il minimo sotto il quale qualsiasi forma di detenzione si configura come un trattamento inumano e degradante, e che – seppure proprio al limite - certamente tale sarebbe stato giudicato il suo, di trattamento (non fumatore dichiarato sin dall’immatricolazione, costretto da allora a convivere con un fumatore in una cella progettata per uno, e ora insardinato in scatola con un terzo). Aveva le sue buone ragioni, ma niente: il terzo letto non l’hanno levato (e fortuna che non c’è lo spazio verso l’alto per mettercene un altro). Piuttosto, Giacomo si è beccato un bel “rapportino”, come vezzeggiativamente si dice in galera, e che a conti fatti vuol dire 45 giorni in più di carcere effettivo.
Ma Giacomo sa il fatto suo, e non ci sta. Ricorre e scrive. Al Procuratore della Repubblica di Udine, e anche a noi. Lamenta quel rapporto disciplinare, ma non solo. Contesta la costrizione al fumo passivo e la sbrigativa indifferenza con la quale vengono gestiti i colloqui con i familiari in quell’Istituto. Giacomo ha la famiglia (moglie e tre figli) a circa 600 chilometri da Tolmezzo: non possono andarlo a trovare tutte le settimane. Quindi, chiede un “colloquio lungo”, per cumulare più ore in un giorno solo. La direzione (da regolamento) acconsente. Poi, però, quando arriva il fatidico giorno, dopo un ora di colloquio un gruppo di agenti si presenta, con un savoir faire che speravamo desueto, e intima alla famiglia di finirla lì, che ne avevano già avuto abbastanza.
Giacomo sa il fatto suo, ma chiede – udite, udite – il “ripristino della legalità”, minacciando ricorsi fino alla Corte europea dei diritti umani: ma che? non lo sa che, se la legalità fosse ripristinata, le grande maggioranza delle carceri italiane dovrebbero essere chiuse? E non certo dagli organismi internazionali di giustizia, basterebbe l’azione congiunta di asl e tribunali di casa nostra. Il paradosso delle nostre carceri sta tutto qui: dovrebbero “rieducare” alla legalità, muovendosi però nella illegalità diffusa. Scuole di avviamento al lavoro criminale, si diceva una volta; quanto meno alla pratica quotidiana della illegalità, si potrebbe dire oggi.